Munch a Bergen • Elio Grazioli

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Ogni volta che vedo un quadro di Munch mi sembra che con lui sia avvenuto un cambiamento totale e inatteso. Niente gli assomiglia prima o intorno, nessuno sembra averlo preparato, non si capisce come sia arrivato a dipingere in quel modo. Non dipinge ciò che vede, ma dentro ciò che vede: di un volto, una pietra, uno specchio d’acqua, una casa mantiene solo i contorni e la tonalità generale, poi all’interno sembra seguire piuttosto la pennellata, i colori, delle forme che vede solo lui; anche tra le cose lascia fluire il segno colorato che così le lega, quasi pare disegnare un’altra forma sovrapposta e misteriosa perché non dettata da quelle cose e che non delinea qualcosa di leggibile; i colori dentro la tonalità dominante che restituisce la somiglianza con la realtà vanno per conto loro; le forme si alterano e abbandonano la verosimiglianza, Munch non guarda più la cosa reale, insegue invece qualcos’altro. Che cosa? Qualcosa che vede solo lui, che resta inspiegabile, indecifrabile, che suona come un segreto, che dà un aspetto esoterico alle opere.

È la mia impressione. Nelle teste dei ritratti, per esempio, perché quelle pennellate circolari al centro della fronte? Nei paesaggi poi, davvero non riesco a capire la visione o il pensiero che lo guidava. Tutto diventa fluido, niente è materia ferma. Forse è questo il suo segreto? Nessuno ha mai dipinto in questo modo prima di lui, con lui c’è un salto epocale: qualcosa di imprevisto sembra essere scattato, un modo completamente nuovo, e dopo non può più essere come prima. La mano segue un pensiero interiore, o forse già lo sguardo. Ecco a cosa dovrebbe servire la tecnologia del virtuale: vorrei per un momento avere gli occhi di Munch per sapere cosa vedeva. Perché non c’è niente di arbitrario, non è pensato dopo, non è postproduzione: probabilmente già guardava il mondo così, cioè il quadro corrisponde davvero a ciò che vedeva, a come lo vedeva. È proprio questo che voleva restituire ed è straordinario, almeno per me, perché è reale, è un’altra percezione. Allora davvero c’era di che credersi un po’ (o troppo) diversi, un po’ al limite della follia (ma aveva qualche “amico” di cui immaginava una certa somiglianza, e di cui allora ha fatto degli incredibili ritratti: Nietzsche, Strindberg, Ibsen). Ricordo nella mostra a Palazzo Reale di Milano di diversi anni (forse decenni) fa una serie di acquarelli in cui aveva dipinto la sua “retina malata”. Retina malata… quasi potesse vedere la propria retina… Cosa direbbe Duchamp con la sua accusa di “retinicità” alla pittura?

 

Nell’immagine:
Un dipinto di Edvard Munch conservato al KODE Art Museums and Composer Homes di Bergen
[Photo credits: Elio Grazioli]

 

Elio Grazioli
Critico e docente di storia dell’arte contemporanea
e della fotografia presso l’Università degli Studi di Bergamo
e all’Accademia di Belle Arti G. Carrara.
Tra le sue pubblicazioni più recenti: La collezione come forma d’arte (2012),
Davide Mosconi: fotografia, musica, design (2014),
Duchamp oltre la fotografia (2017).