Sul Cristallino • Fabio Corigliano

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Si è recentemente conclusa, a Bergamo, la mostra Cristallino curata da Luogo_e, nella quale sono stati aperti dei fronti di accesso importantissimi ad uno dei concetti più pervasivi e attuali della nostra contemporaneità: quello della trasparenza.
Nell’esposizione sono stati considerati praticamente tutti i fondamentali punti di accesso – che poi sono anche i luoghi da cui far partire l’interrogazione – della società della trasparenza, la quale, come si può ben immaginare presenta una quantità di elementi connotativi piuttosto alta, e che tuttavia, in sintesi, corrispondono alle “varianti” della medesima nozione di trasparenza: quella istituzionale, che ha a che fare con il diritto pubblico e amministrativo, e che è la più evidente; quella mitologica, che si riferisce alla nascita del mito della purovisibilità; quella personale o interpersonale, o dell’intimità violata dalle piattaforme telematiche, dai social network, che privano l’uomo del suo “segreto” per tradurlo in una arena di visibilità totale.
In questo variegato contesto, naturalmente, come è stato evidenziato dalla scelta dei materiali espositivi, l’elemento dello sguardo, dell’occhio, è particolarmente essenziale, e si connette a tutte le varianti della nozione: l’occhio che accede ai documenti amministrativi, l’occhio stimolato e forse lusingato dall’architettura di vetro, l’occhio che allo stesso tempo vede e nasconde l’intimità, l’interiorità, e si fa quasi confine mobile tra esterno ed interno, tra ciò che si verifica nel cuore, nella mente dell’uomo, e ciò che accade al di fuori.
I tre ambiti, le tre varianti esposte, concorrono alla narrazione della nostra società.
Volendo proporne una piccola carrellata, una piccola incursione, si potrebbe osservare che per quanto riguarda la cosiddetta trasparenza delle istituzioni, l’epoca contemporanea è proprio quella che ha fattivamente dato concretezza al sogno di Robespierre di rendere visibili ai cittadini i meccanismi all’interno dei quali si esercita il potere, provocando una forte destabilizzazione delle forme tradizionali della rappresentanza democratica – che infatti nel dibattito politico viene ideologicamente contestata nel nome di un’idea davvero “giacobina” del vincolo di mandato – e producendo una mobilitazione dei cittadini che sulla scorta di quanto previsto dalla legislazione vigente potrebbero finalmente ambire al controllo della torre centrale del Panopticon di Bentham, con la finalità di sottrarre il controllo ai “Guardiani” attuali e sostituirlo con un altro tipo di controllo, non meno pervasivo. L’opera che meglio descrive questo primo aspetto è a mio parere quella di Giovanni De Francesco, Studi per una maschera. È vero che quella maschera nasconde e ricopre nascondendo e dissimulando, ma è allo stesso tempo vero che quella teoria di volti tutti intenti nell’attività del guardare, dell’osservare, dello scrutare sembrano rappresentare realisticamente un gruppo di cittadini mobilitati per approfittare della trasparenza delle istituzioni, e guardare, senza espressione, il movimento incompreso di meccanismi “opachi”, di documenti illeggibili, di procedure bizzarre, quasi kafkiane. Prive di espressione ma abbruttite dalla morbosa curiosità, dall’indiscrezione fine a se stessa. Quelle maschere, loro stesse kafkiane, sono il volto dell’uomo posto di fronte ad un’istituzione muta e paradossalmente allo stesso tempo troppo rumorosa, produttiva di suoni e voci inestricabili, come accade a chi volesse contattare il Castello di Kafka, venendo inondato da una pluralità disordinata di voci incomprensibili:

Dal ricevitore uscì un brusìo come K. non aveva mai sentito al telefono. Era come se dal brusìo d’innumerevoli voci infantili – ma non era un brusìo, era un canto di voci lontane, lontanissime –, come se da questo brusìo si formasse, in un modo che aveva francamente dell’impossibile, un’unica voce, acuta ma forte, che colpiva l’orecchio quasi chiedesse di penetrare più profondamente, oltre il misero organo dell’udito.

Altra variante è quella mitologica, del mito attraverso il quale è stata costruita l’idea della trasparenza delle istituzioni e della casa di vetro.
Nella seconda edizione de L’incendiario, del 1913, Aldo Palazzeschi inserì una poesia dal titolo “Una casina di cristallo”, nella quale si legge:

Quando gli uomini vivranno
tutti in case di cristallo,
faranno meno porcherie,
o almeno si vedranno!

Si tratta grossomodo delle parole con le quali, solamente un anno dopo, Paul Scheerbart aveva introdotto, attraverso la sua Glasarchitektur, il concetto per il quale l’architettura di vetro avrebbe avuto delle fondamentali ripercussioni etiche, sino alla prefigurazione di una nuova civiltà della trasparenza.
Ancora prima, qualche anno prima (nel 1908), Filippo Turati, nel corso di una discussione parlamentare, aveva auspicato che l’amministrazione fosse equiparabile ad una “casa di vetro”.
Quello della trasparenza è insomma un tornante che trova le sue origini concettuali negli anni Dieci del Novecento. In quegli anni viene “costruito” il mito della civiltà del vetro.
Ora, che il vetro fosse un materiale particolarmente consono all’architettura lo aveva già dimostrato Joseph Paxton nel 1851, progettando un enorme Palazzo di Cristallo per l’Esposizione Internazionale di Londra. Ma che fosse un materiale consono alla “nuova” civiltà, alla sua mitologia, lo aveva sostenuto Scheerbart. Tralasciamo in questo contesto tutto il movimento della letteratura russa che negli stessi anni si era occupato del tema della trasparenza.
Naturalmente tutta la “teoresi” scheerbartiana sarebbe risultata monca se da un lato, operativamente, non fosse stata sviluppata da Bruno Taut e da tutti gli allievi ed epigoni del vetro, da Mies Van Der Rohe a Frank Lloyd Wright, per citare solamente i più celebri, e dall’altro se non fosse stata “fondata” filosoficamente da Walter Benjamin, che ne ha approfondito la natura e l’ha inserita nel più ampio movimento dell’epoca, sostenendo che «Le cose di vetro non hanno ‘aura’. Il vetro è soprattutto nemico del segreto. È anche il nemico del possesso». Il vetro di Scheerbart ha portato a conclusione una tragica battaglia tra le ragioni dell’interiorità e quelle dell’esteriorità che è giunta al suo apice proprio negli anni Dieci del Novecento, in quella che Thomas Harrison aveva definito l’”emancipazione della dissonanza”. Dai Quaderni di Malte Laurids Brigge alla Persuasione contrapposta alla Rettorica di Carlo Michelstaedter, un’intera generazione si sarebbe scontrata con l’essenza caotica dell’intimità violata dal progresso e dall’insorgere di una civiltà tutta costruita sull’idea di esteriorità, che ha avuto il punto di massimo scontro proprio con lo scoppiare della Prima Guerra Mondiale, dalla quale, come aveva notato lo stesso Benjamin, i soldati tornavano completamente muti, senza alcuna esperienza da raccontare: privati della loro intimità, solamente pregni della devastante esperienza dell’esteriorità.
È naturalmente nell’opera di Daniele Maffeis che si trovano degli spunti più che interessanti per comprendere questo aspetto della mitologia della trasparenza.
Infine, ancora nell’Autoritratto su schermo di De Francesco, ma anche negli Studi di Francesco Bartolozzi, si intuiscono e si “vedono” i caratteri della trasparenza personale e interpersonale ai tempi della visibilità totale procurata dai dispositivi di visione ai quali accediamo giornalmente, i social networks principalmente.
In essi si avvera una delle massime aspirazioni dell’ideologia della trasparenza, almeno dai tempi di Rousseau: il poter vedere al di là degli occhi, il poter entrare nei cuori per capire e carpire tutti i movimenti dell’animo. Il rubare le emozioni per poterle visionare accuratamente e collezionare, come si fa con oggetti privi di valore – come se si trattasse di oggetti privi di valore, come le capsule di vetro borosilicato di Lorenzo Lunghi.
Se non fosse che ciascun moto dell’animo può essere mostrato, nascosto o alterato.
In questa “scelta” finale di fronte all’apocalisse (non solamente architettonica, per riprendere e parafrasare Scheerbart), risiede l’elemento davvero umano della vita.
Ma nella distorsione dell’elemento davvero umano si nasconde uno dei potenziali pericoli di questa civiltà: la costruzione o meglio ricostruzione del reale, la ricostruzione nel senso di manipolazione: ciascuno può far vedere quello che desidera di sé e può alterare come vuole ciò che “vede” negli altri, eventualmente devastando la loro stessa vera immagine per sostituirvene un’altra, cancellando quanto vi risiedeva di più genuino.
L’elemento Cristallino come auspicio è quindi nell’intenzione dei curatori della mostra un antidoto alla trasparenza del vetro.
Cristallo vs. Vetro.
L’elegante multisfaccettatura del cristallino potrebbe sicuramente garantire la “plurificazione” dei punti di vista sul mondo, come si augurava Vattimo nella sua Società Trasparente, producendo un’emancipazione dell’uomo in grado di mettere fine alla narrazione unilineare e unilaterale della storia in funzione di una narrazione viceversa plurale e partecipata. Ma solamente se l’emancipazione sarà davvero tale e non consisterà in una devastazione dell’umano, travolto dalle informazioni e dalle comunicazioni, incontrollate e incontrollabili, che potrebbero a loro volta spianare levigare e livellare in virtù della loro incomprensibile sovrabbondanza. Solo se quell’emancipazione corrisponderà davvero alla visione del futuro, sempre che l’Angelus Novus riesca a resistere alla forza della tempesta, rivolgendo le spalle al passato, alle macerie, per infuturarsi nell’avvenire, in cui cercare di ricostruire gli elementi auratici perduti e infranti in quella terribile tempesta chiamata progresso.

 

Nell’immagine:
Fabio Corigliano, I nodi della trasparenza, Studium Edizioni, Roma, 2018

 

Fabio Corigliano
Nato a Trieste dove tuttora vive, lavora e studia.
Nel 2018 ha pubblicato un saggio monografico
dedicato a I nodi della trasparenza per i tipi di Studium.