Storia di quando Elio Grazioli mi ha presentato Luca Maria Patella, ormai un amico • Federica Mutti

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Si può conoscere qualcuno per interposta persona? Lo si può conoscere tanto a fondo da sentirlo amico, per qualche misteriosa e, ad occhi estranei, inspiegabile ragione? Lo scopo di questo breve scritto è provare a raccontarvi la storia di un incontro, a darvi un’idea di come Elio Grazioli mi abbia, seppur inconsapevolmente, fatto stringere un’amicizia. Un dettaglio che forse occorre precisare: se Luca Maria Patella è ormai certamente amico mio, non posso dire con altrettanta sicumera che valga il viceversa. È, ad oggi, una di quelle situazioni nelle quali noi siamo amici, ma lui ancora non lo sa.

 

Il primo incontro è un faccia a faccia. Guardo un LMP d’annata 1973 che, in copertina, mi riguarda dietro un paio di occhiali da sole che gli cadono a goccia sugli zigomi. L’inquadratura non scende oltre le spalle abbronzate, LMP è in spiaggia. Baffi e pizzetto sono neri eternamente in una fotografia in bianco e nero. Un bagliore gli attraversa la zazzera, sopra la fronte. È un raggio, è Solstizio.
A questo punto del nostro incontro interviene per la prima volta Elio Grazioli, che lo introduce.
Artista singolare, insituabile, inclassificabile, […] proviene da un percorso formativo non solo artistico ma anche scientifico e psicologico. Mi parla della sua convinzione della necessità che tutto sia, debba diventare, “opera”. Lo descrive come uno di quegli artisti che hanno inteso l’arte come una modalità particolare di rapporto con il mondo e di conoscenza di sé in quell’intreccio con la vita che si intende inestricabile, dunque come un artista la cui espressione è articolata da un intreccio tra arte, vita, linguaggio, comprensione del mondo, ricerca di sé tra consapevolezza e moti dell’inconscio. Si conclude così la prima presentazione, l’equivalente scritta di una stretta di mano, con molto piacere.

 

Come di consueto, dalla stretta di mano si passa al Da dove vieni?, in senso geografico, e in senso biografico. Nato a Roma nel 1934, LMP ha iniziato a costruirsi libretti illustrati fin da bambino. Già mi sta simpatico, devo saperne di più. E allora scopro dove ha studiato, e perché. Laurea in Chimica, dice Elio Grazioli raccontando aneddoti familiari e le sue prime esperienze di lavoro. Ma LMP vive il dilemma della separazione tra arte e scienza, pensa che la scienza da sola non possa essere né fornire la soluzione e si convince fin d’ora che l’arte invece possa e anzi debba essere la pratica che coniuga e articola la varietà dei saperi necessari per una conoscenza complessa della realtà e di sé. Ora capisco che LMP mi piace davvero. Mi tuffo nella sua formazione artistica, nello svelamento dei suoi primi riferimenti tra antico e moderno, scopro la sua attenzione al segno, coltivato con l’incisione che lo accompagnerà per tutta la sua carriera, reinventando tecniche tradizionali in equilibrio tra rigore e irriverenza. Ripercorro i suoi anni Sessanta, fatti di movimenti, affermazioni e disconoscimenti. LMP in questa storia si guarda attorno, conosce, e con sguardo critico rimane e rimarrà sempre teso a inventare qualcosa autonomamente. Con curiosità vorace e onnivora, preparazione tecnica e teorica, scientifica, artistica e psicologica/psicanalitica, con radici jughiane poi diramatesi in direzioni altre, senza dimenticare l’importanza della politica, come contenuto e come campo di riflessione e auto-riflessione.

 

Volto pagina, cambio capitolo. Compare la coprotagonista femminile. La storia di ciascuno equivale alla storia dei suoi amori? L’incontro di LMP con l’artista Rosa Foschi alla Calcografia Nazionale dove lavora in una fiaba equivarrebbe all’incontro con l’aiutante magico: compagna, collaboratrice, musa per tutta la vita. E negli stessi anni Sessanta compaiono nella ricerca di LMP i riferimenti a Duchamp, i giochi di ribaltamento e specchiatura, la fotografia, il “colore simultaneo”, i primi film, le prime indagini sul linguaggio e sulla semiotica, dando vita a una sperimentazione multimediale originata e tenuta insieme dall’argomento comune del movimento-riflesso-complessità. Le fotografie manipolate, moltiplicate, specchiate, alterate mettono in campo riflessioni sul mezzo, sul rapporto mezzo-soggetto, sul linguaggio che il mezzo porta in sé, sui linguaggi che possono scaturire dalla messa in discussione del mezzo.
All’immagine si sovrappone la ricerca di sé, nell’immagine l’artista s’insinua, talvolta la sovrascrive, talvolta vi si camuffa. Un occhio attira i miei occhi. L’occhio nel paesaggio (1965) è un film “girato dentro una pupilla”, dentro la quale si vedono il paesaggio e l’artista stesso nell’atto di filmare. La risultante è un mondo complesso, in realtà oggettivo; la realtà vi sta quasi a simboleggiare l’estremo limite dell’immagine e della visione, afferma LMP. Questo gioco, così serio e analitico mi intriga, ne cercherò altri nei capitoli a seguire.

 

Giacché ormai LMP lo sento amico, proseguo il resto di questa chiacchierata chiedendo consigli, traendo spunti di riflessione tra le pagine. Patella suggerisce che l’artista debba essere colto, in favore di una complessità proficua e contro l’inconsapevolezza. Mi insegna l’arte della polemica, del mettere in discussione ciò che somiglia alla propria stessa ricerca, ciò che ci è coevo e solo apparentemente affine, ma manchevole di quel che serve davvero. È la polemica contro il non-complesso, l’incompleto, il nevrotico. LMP propone la via non rettilinea: un mentalismo essenziale, culturale, ma anche “concretamente” estetico.
Quanto al lavoro con il mezzo filmico, LMP invita all’adozione dell’inconscio ottico della cinepresa, rinunciando all’ottica cosciente. E mette in luce la distanza che corre tra giovani cineasti e “pittori cinematografari”, come Patella stesso, Baruchello e Schifano, autori che puntano su nuovi modi di inquadrare il mondo e spostano al centro della ricerca il linguaggio. Di qui l’indagine profonda sui mezzi tradizionali e nuovi, di volta in volta approfonditi e reinventati, interrogati, con la pretesa di ottenerne risposte inedite, applicazioni insolite.

 

E mentre cammino tra le opere di LMP che sono tutte installate tra le pagine, l’attenzione si sposta sul Sessantotto, e sul sempre attuale dibattito sul rapporto tra arte e politica, sulla possibilità di un’autonomia reciproca e sui rischi di un’interdipendenza, di un’eventuale subordinazione. In quell’anno LMP partecipa attivamente alla rivista “Cartabianca”, pubblicata in cinque numeri dalla galleria di Fabio Sargentini subito dopo lo spostamento nella nuova sede, il famoso “garage”. La rivista, che sostituisce il più tradizionale e inerte catalogo, sotto l’iniziale guida di Alberto Boatto incarna il pensiero dello stesso LMP riguardo al rapporto arte-politica. Come riassume Elio Grazioli, la rivista ha sempre assunto una posizione precisa: non annullare la contestazione estetica nella contestazione politica, non annullare l’arte nell’esercizio politico. Per Patella restano da stabilire i ruoli specifici di arte e politica, senza disequilibri e sbilanciamenti, e ancora una volta, come nell’iniziale confronto tra arte e scienza, egli vede nell’arte il luogo di una possibile complessità proficua, in cui ogni elemento può trovare il suo spazio in modo dialettico.
Ugualmente Patella auspica questo equilibrio dialettico nel rapporto immagine-parola, quest’ultima elemento cardine della sua intera ricerca, spazio di studio, di indagine, di gioco serio. Rivedo Piazza di Spugna. Poi visito Montefolle, spazio questa volta fisico, reale, pur di nominazione fantastica. È per LMP e Rosa il nido, il laboratorio, lo studio, in sostanza il luogo di una visione condivisa. Lì rimango fino a che qualcos’altro attira la mia attenzione.

 

Chi mi conosce lo sa, alla visione dei libri non resisto, il resto non c’è più. E ai libri Patella nella sua pratica concede ampio spazio. Si parte dai “libri interdisciplinari totali” in cui i veri protagonisti sono gli elementi semantici, dove luoghi e personaggi sono il realtà elementi linguistici, psicologici, politici, come nel libro Io sono qui. Ci sono libri di poesie e prose, libri che riguardano la fotografia, analizzata in particolare nel libro Semiologie grafiche e foto-grafiche sperimentali (per L’arte moderna, Fratelli Fabbri Editori, 1975). Negli stessi anni, altri libri d’artista diventano strumenti di autoproiezione, cioè strumenti per il passaggio a una pratica più autoanalitica e autoreferenziale, in cui la figura dell’artista sarà ancor più presente non solo in senso autoriale, ma anche in senso attoriale, cioè come attore, come agente all’interno delle meccaniche dell’opera. Singolare come questa autoanalisi e autoproiezione avvenga nel confronto esplicito con quattro autori di riferimento per Patella: Dante, Diderot, Piranesi e Duchamp.

 

Ora mi arrendo, ogni tentativo di raccontare perché qualcuno ci è diventato amico è di solito vano, e questo caso non fa eccezione. Tuttalpiù si può raccontare il come, e questo credo di avervelo ampiamente chiarito, e poiché vi avevo promesso un testo breve, non credo di poter proseguire oltre. Sarà Elio Grazioli stesso, eventualmente, a presentare anche a voi Luca Maria Patella disvelato (Quodlibet Studio, 2020).

 

 

Nell’immagine:
Elio Grazioli, Luca Maria Patella disvelato, Macerata, Quodlibet, 2020

 

Federica Mutti
Artista, curatrice, scrittrice. Si è diplomata all’Accademia di belle arti G. Carrara di Bergamo,
e in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Conduce una ricerca sul rapporto tra formalizzazione oggettuale e traduzione verbale dell’opera.
Ha partecipato a varie mostre collettive tra cui The Great Learning (a cura di Marco Scotini, La Triennale di Milano, 2017), e tra le sue mostre personali si ricorda Mostra Macrocefala (Galleria Placentia Arte, Piacenza, 2016). Il suo primo romanzo, I sorvolati, è uscito nel 2020 per Bookabook. Fa parte del team curatoriale di luogo_e.