Selfie? No grazie • Luciano Passoni

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a proposito dei selfie e di Elias Canetti, Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-1937), Adelphi, 1985

 

Ricordo un gesto, prettamente femminile, degli anni della mia infanzia, che non ho più visto da allora per molto tempo e che ho rivisto rinnovato negli ultimi anni.
Mi capitava allora di vedere in luoghi pubblici le signore cercare con le mani e con gli occhi nelle loro “borsette” quella che poi risultava essere una scatolina, a volte di metallo impreziosito, più spesso di “bachelite”, la plastica di allora, quadrata o più spesso rotonda contenente un soffice batuffolo rosato, una polvere rosata (“cipria”) e uno specchietto.
Con gesti appropriati e discreti facevano scorrere l’immagine riflessa sull’intero volto soffermandosi su naso, mento e guance “incipriandosi” in impalpabili nuvole di profumo.
Passarsi il “rossetto” sulle labbra è un gesto che io, distratto osservatore dell’universo femminile, ho visto spesso essere ostentato per poi svanire, quasi dimenticato, e tornare e sparire e ritornare secondo i capricci delle mode. L’incipriarsi il naso mi sembra definitivamente sparito, ma non il prezioso scrutarsi allo specchio.
Non so se le ragazze d’oggi, non dico le signore, abbiano nelle loro borse ancora uno specchietto, credo di no.
Qualche anno fa ho scorto una ragazza sul treno che controllava l’aspetto del suo volto specchiandosi nel vetro scuro del telefonino spento; e più recentemente una giovanissima ragazza farsi una foto per controllarsi.
Chi di noi, in mancanza di uno specchio, non si è specchiato in una vetrina, ignorando completamente i prodotti esposti, solo per constatare il proprio aspetto?
Ma perché questo racconto? Perché nel libro che sto leggendo, Il gioco degli occhi di Elias Canetti, mi sono imbattuto in una riflessione che qui in parte trascrivo (e spero che Canetti mi scuserà per l’infelice accostamento di stile).


[…] Quando andavo dal parrucchiere a farmi tagliare i capelli, era imbarazzante dover guardare sempre la propria immagine davanti a sé; quest’uomo di rimpetto, sempre uguale, mi dava un senso di costrizione, di oppressione. Così i miei sguardi vagavano a destra e a sinistra, dove sedevano persone che erano affascinate da se stesse. Si guardavano a fondo, si studiavano, facendo smorfie per arrivare a una migliore conoscenza dei propri lineamenti, non si stancavano, non sembravano mai sazi di sé; e ciò che mi stupiva soprattutto era che non si curavano affatto di chi, come me, le osservava per tutto il tempo, tanto erano impegnate a occuparsi esclusivamente di se stesse. Erano tutti uomini, giovani e vecchi, rispettabili e meno rispettabili, così diversi l’uno dall’altro che si stentava a crederci, e tuttavia così simili nel loro comportamento: ognuno era in adorazione di se stesso, prostrato davanti alla propria immagine.
Ciò che mi colpiva in modo particolare era l’insaziabilità della contemplazione di sé […]

 

Per constatare che a distanza di poco meno di cento anni le cose non sono, di fatto, sostanzialmente mutate, sono mutati gli strumenti non le motivazioni.
Ora non è più lo specchio il nostro interlocutore. Oggi la matrigna di Biancaneve chiederebbe all’iPhone chi sia la più bella del reame.
L’apice della vanità è denunciato dai selfie.
Fin dai tempi il narcisismo cercava soddisfazione nel ritratto e soprattutto nell’autoritratto; con l’avvento della fotografia pigliò piede “l’autoscatto”. Oggi è il selfie che detta legge.
Il selfie vero e proprio non è un autoritratto, è un “autoritratto di gruppo”.
Nessuno sembra resistergli, nessuno cerca di sottrarsi. Anche persone insospettate si prestano al suo gioco, che non è un gioco, bensì una farsa. Il selfie spaccia per “relazione” una semplice compresenza, per lo più di soli pochi secondi. Non documenta un’emozione, bensì una “recita”. I sorrisi di pragmatica si spengono immediatamente dopo il clic e l’indifferenza cala sulla scena. Per lo più un selfie non documenta niente, anzi documenta il niente.
Il selfie, come la fotografia del resto, a differenza dello specchio, ha la pretesa di fermare l’attimo e di moltiplicarlo e di essere fruibile per più e più sguardi. Rispetto alla fotografia non ha pretese estetiche, almeno me lo auguro, vuol essere uno strumento di relazione, un disperato strumento che cerca di riempire il vuoto con il vuoto.
Molte altre riflessioni si potrebbero fare al riguardo ma non voglio tediare perché, in realtà, tutte queste parole, comprese quelle di Canetti, sottendono una speranza, la speranza di ricevere a breve una risposta, magari da qualcuno che non abbia conosciuto la bachelite, che faccia “un elogio al selfie”.
Restiamo in attesa.

 

 

Luciano Passoni 
Di formazione artistica, ex insegnante, ex libraio.