Sylviamelia • Michele Savino

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(_e pensieri)

 

Vedeva troppo. – E vedere è cecità.
Tristan Corbière

 

L’11 febbraio, giorno in cui Luogo_e ha inaugurato la collettiva Ci dipingono ciechi, è una data cara a molti lettori di poesia, che ricordano la morte di due celebri poetesse.
Lunedì 11 febbraio 1963 Sylvia Plath si tolse la vita nella cucina del suo appartamento al civico 23 di Fitzroy Road a Londra; aveva trent’anni, lasciava due figli piccoli e una particolarissima produzione poetica che le assicurò una fama postuma sempre crescente.
Amelia Rosselli, che amò e tradusse magistralmente le poesie della Plath, osservò come l’intensità della ricerca artistica di quella giovane poetessa fosse già «un rischio mortale di per sé»,¹ soprattutto se quella ricerca doveva conciliarsi con le molteplici incombenze quotidiane di una madre sola. Il suo matrimonio probabilmente fallì anche per la crescente competizione che si era instaurata con il marito, il noto poeta Ted Hughes, che alla morte di Sylvia si occupò della pubblicazione delle sue raccolte poetiche.
Domenica 11 febbraio 1996 Amelia Rosselli si gettò dalla finestra della sua abitazione in via del Corallo a Roma: coincidenza o consapevole instaurazione di un legame con il tragico destino della Plath? In un’intervista del 1978 la Rosselli aveva dichiarato che la sua scelta della poesia, quella sua scelta di vita, fosse pericolosamente rischiosa, perché difficilmente la poesia si concilia con una vita normale, con la già di per sé problematica quotidianità. Ogni poeta, per seguire la sua vocazione, è costretto a «sperimentare con la vita»,² a gestire un fragilissimo quanto precario equilibrio tra le esigenze dell’arte e quelle pratiche della vita.
Amelia Rosselli e Sylvia Plath hanno in comune, oltre alla suddetta data del suicidio, il trauma infantile della perdita del padre che le segnò profondamente; tuttavia ciò che le accomuna sul piano letterario sono la singolarità della voce poetica e la particolarità del linguaggio: magmatico e labirintico quello della Rosselli, secco e assoluto quello della Plath.
Se, come sosteneva la Rosselli, «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo»,³ allora il linguaggio è quel luogo immateriale dove smontare e rimontare il mondo attraverso le parole; il poeta, come il mitico veggente cieco Tiresia, non si limita a vedere il mondo, ma si fa portavoce di una visione del mondo.
Nelle opere della Rosselli musicalità e intensità poetica emergono dalle profondità di un linguaggio in continua ebollizione:

 

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.

 

Amelia Rosselli – nata a Parigi e vissuta negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Italia – padroneggiava francese, inglese e italiano; questo plurilinguismo, affiancato agli studi di teoria musicale, etnomusicologia e composizione, le consentì una sperimentazione linguistica senza precedenti, dove le lingue si fondono e si confondono, le parole si rincorrono sonoramente, si reinventano incessantemente come si reinventa il linguaggio. Questa dimestichezza linguistica permise alla Rosselli di tradurre le poesie di Sylvia Plath con particolare fedeltà e intensità.
Poesie, quelle della Plath, così pericolosamente difficili da addomesticare che solo una sensibilità affine poteva misurarsi con esse e restituirne l’autentica voce in una lingua diversa.
Piccola fuga è una poesia scritta dalla Plath nel 1962, così tradotta da Amelia Rosselli:

 

Dondolano le nere dita del tasso;
Passano fredde nuvole.
Così i sordi e i muti
Fanno segnali ai ciechi, e ne vengono ignorati.

Mi piacciono le affermazioni nere.
Quella nuvola senza tratti, guarda!
Bianca tutta come un occhio!
L’occhio del pianista cieco

Al mio tavolo sulla nave.
Tastava per il suo cibo.
Le sue dita avevano i nasi di donnole.
Non smettevo di guardare.

Poteva sentire Beethoven:
Nero tasso, bianca nuvola,
Le orrifiche complicazioni.
Trappole per le dita – un tumulto di tasti.

Vuoti e sciocchi come piatti di cucina,
Così sorridono i ciechi.
Ho invidia dei grandi rumori,
La siepe di tasso della Grosse Fuge!

La sordità è un’altra questione.
Che oscuro imbuto, padre mio!
Vedo la tua voce
Nera e frondosa, come nella mia infanzia,

Una siepe di tasso fatta di ordini,
Gotica e barbara, puro tedesco.
Uomini morti vi piangono.
Di nulla sono colpevole.

Il tasso-Cristo, allora.
Non è forse torturato quanto Lui?
E tu, durante la prima guerra
Nel delicatessen californiano

Divorando le salsicce!
Colorano il mio sonno,
Rosse, screziate, come colli mozzati.
V’era un tale silenzio!

Un grande silenzio d’altro ordine.
Avevo sette anni, non sapevo niente.
Il mondo accadeva.
Avevi una sola gamba, e una mente prussiana.

Ora nuvole identiche
Stendono le loro lenzuola vacue.
Non dici nulla?
Sono zoppa nella memoria.

Ricordo un occhio azzurro,
Una cartella piena di mandarini.
Questo era un uomo, dunque!
La morte s’apriva, come un nero albero, neramente.

Io nel contempo sopravvivo,
Ordinando la mattinata.
Queste sono le mie dita, questo il mio bambino.
Le nuvole sono un vestito nuziale, di quel pallore.

 

In questi versi emerge la ricorrente ossessione della Plath per la morte del padre, un tedesco autoritario e prepotente, deceduto in seguito alle conseguenze di un diabete non curato, che lo portò a subire l’amputazione di una gamba; Sylvia aveva sette anni, la stessa età di Amelia Rosselli quando suo padre venne assassinato dalle milizie fasciste.
La visione poetica di Sylvia Plath e di Amelia Rosselli ha origine da un vedere talmente intenso da divenire accecante: si spalancano allora gli occhi della mente, dove si manifestano le immagini invisibili generate dal linguaggio e dove la cecità si trasforma in epifania dell’immagine.

 

 

NOTE
1  A. Rosselli, L’opera poetica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2012, p. 1229.
 Ibidem.
3  Ivi, p. CXLIII.
4  Ivi, p. 179.
5  Ivi, pp. 1169-1171.

Immagine
Michele Savino

 

Michele Savino
La sua formazione, dopo il Liceo Scientifico, inizia all’Accademia di Belle Arti Giacomo Carrara
di Bergamo dove si diploma in Pittura nel 2011, per poi proseguire all’Accademia di Belle Arti di
Brera di Milano dove si diploma in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali nel 2013 con una tesi
monografica su Gino De Dominicis, un estratto della quale è pubblicato nel catalogo bilingue
Artisti nello spazio, edito da Silvana Editoriale. È stato finalista all’ottava e alla dodicesima
edizione del Premio Combat Prize a Livorno, ricevendo la menzione speciale della giuria per la
pittura nel 2021; sue mostre personali si sono tenute a Bergamo presso lo Studio Vanna
Casati, la Galleria Viamoronisedici/spazioarte e la Libreria ARS. Ha pubblicato plaquettes con le
Edizioni Pulcinoelefante e con Babbomorto Editore.