L’immagine live nel Web 2.0 • Andrea Zucchinali

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Il seguente testo è stato pubblicato nel terzo volume della collana Imm’ (Imm’ 3: Live. Intensità, intermittenza, registrazione, Moretti&Vitali), interamente dedicata a studi e approfondimenti sulle immagini e sulla cultura visuale.

Con la sua serie Googlegrams, realizzata a partire dal 2005 e presentata in Italia in occasione della quarta edizione del Festival della Fotografia Europea (2009), Joan Fontcuberta introduce una riflessione sullo statuto dell’immagine fotografica nella contemporaneità e sul suo potente mezzo di diffusione, il Web. A partire dalla selezione di alcune immagini contemporanee considerate iconiche (ad esempio le Torri Gemelle sotto attacco, i prigionieri di Abu Ghraib, il muro nella regione palestinese della Giordania occidentale), l’artista le riproduce come foto-mosaici, assemblando una grande quantità di immagini (fino a 10000) reperite nel Web attraverso il motore di ricerca Google. La ricerca avviene tramite una serie di parole chiave scelte dall’artista che fungono da filtro e che, peraltro, producono non pochi incidenti di natura logica; una dopo l’altra tali immagini vengono ricomposte secondo criteri cromatici come fossero tanti pixel in modo da riprodurre la foto-icona scelta inizialmente, grazie all’uso di un software apposito (MacOsaix), ideato dallo stesso Fontcuberta: in questo modo, l’immagine del muro eretto per separare i territori palestinesi e israeliani risulta composta, in seguito ad un’osservazione più attenta, da migliaia di immagini/pixel relative ai muri dei lager nazisti, o ancora, la fotografia del soldato Lynndie England che tiene al guinzaglio un prigioniero denudato ad Abu Ghraib a Baghdad è costituita da immagini di persone citate nel Final Report of the Independent Panel, come l’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush o il segretario del Dipartimento della difesa Donald Rumsfeld.
La provocazione che s’innesca allo svelamento dell’inganno del trompe-l’œil, ottenuto attraverso l’operazione di decostruzione/ricostruzione delle immagini, ci indirizza al cuore della riflessione, proposta dall’artista, sul supposto regime di verità dell’immagine fotografica veicolata dai media – in particolare da Internet – nell’ambito del processo di costruzione di quello che Pierre Teilhar de Chardin chiamava “noosfera”, la coscienza collettiva costituita dall’interazione tra gli individui attraverso reti sociali sempre più complesse. Se, secondo Teilhar de Chardin, all’aumentare della complessità delle reti sociali che veicolano gli scambi di informazioni corrisponde un aumento del grado di consapevolezza della noosfera, Fontcuberta sembra suggerire che, nella rete sociale/Internet, all’aumento di intensità e complessità della circolazione delle immagini/informazioni non corrisponde un consolidamento del grado di consapevolezza degli utenti: ingannati dal supposto statuto documentario delle immagini iconiche proposte dall’artista, che ci risultano familiari in ragione della loro massiva diffusione mediatica, ci rendiamo conto soltanto in un secondo momento di trovarci di fronte a dei simulacri, al cui interno si svelano infine i cortocircuiti di senso.
Fontcuberta, in questo modo, aggiunge un ulteriore elemento di riflessione al più ampio dibattito (di cui è peraltro stato vivace protagonista sin dall’inizio) sulla fine dello statuto di verità dell’immagine, nell’ambito del passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale: il cuore del problema, sembra suggerire l’artista, non è tanto il venir meno del rapporto indicale tra il soggetto e la sua immagine, che da impronta del reale si fa stringa di numeri1, quanto lo spazio in cui le immagini si muovono e si diffondono moltiplicandosi a dismisura, quel Web dove ogni immagine subisce una metamorfosi semiotica, da informazione contenutistica e memoriale a pixel, unità di costruzione di un mosaico più ampio nel quale diventa indistinguibile.
Ne risulta l’impossibilità di riconoscere, in questo marasma iconico, le buone immagini da quelle cattive, e di conseguenza le buone informazioni: nel contesto della società ipermediatizzata, in cui chiunque può produrre, modificare e condividere immagini attraverso il proprio smartphone, in cui il concetto stesso di autorialità è destinato a soccombere, assediato da un lato dalla malleabile incorporeità numerica dell’immagine e dall’altro dall’invasione massiva di contenuti iconici senza filtro, che ruolo è destinata a ricoprire ancora la fotografia? Dopo aver assistito all’apertura della “(foto)camera di Pandora”, per citare un recente libro dello stesso Fontcuberta, dovremo credere alle “copiose […] diagnosi terminali – rottura irrimediabile del cordone ombelicale col mondo fisico, virtualizzazione cancrenosa allo stato avanzato, ineluttabile prognosi infausta: morte della fotografia”2?
Occorre notare che, se dal punto di vista ontologico l’immagine fotografica fatica ad uscire dall’empasse derivante dall’assenza di un incardinamento teorico definitivo, al contrario la pratica fotografica appare più viva che mai: “Superbamente incurante degli ordini accademici la fotografia digitale, viva e scalcitante, ha continuato a funzionare – scrive Michele Smargiassi – […] Troppo a lungo ridotta a sottoinsieme dell’espressione artistica, confinata nel giudizio estetico e/o etico, la fotografia è invece un fascio di pratiche sociali il cui valore sta nell’efficacia con cui assolve ogni volta il suo specifico scopo. È un oggetto comunitario attivo, che evolve insieme ai suoi contesti”3.
Supponiamo dunque che la fotografia stia “facendo la muta” cambiando pelle, adattandosi per non morire alla fluidità del suo nuovo “habitat mediale”. La metamorfosi più radicale, in questo senso, non sta forse tanto nella pervasività e nella capillarità di diffusione dell’immagine, o nella sua ibridazione multimediale – queste prospettive erano già insite in nuce nelle sue potenzialità evolutive, se Paul Valéry poteva profeticamente sentenziare, nel 1936: “Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano”4. La vera metamorfosi sembra invece legata allo sviluppo di nuovi, imprevedibili e inattesi usi della fotografia, favoriti dalla sua dimensione fluida-digitale combinata con lo sviluppo del suo nuovo habitat, il web orizzontale interattivo.
Proprio l’interazione sembra poter divenire l’ambito di sviluppo più significativo per la fotografia, che beneficia della fulminea evoluzione tecnologica del suo nuovo mezzo di produzione, lo smartphone: “Tra il 2008 e il 2001, il panorama subisce una modifica inattesa. Non è un apparecchio fotografico, ma un telefono cellulare, l’iPhone di Apple – […] concepito da Steve Jobs per dare un ampio accesso alle funzionalità del Web (e in particolar modo nella versione 3G, disponibile dal 2008) – a promuovere un’evoluzione essenziale: quella della fotografia connessa”5, scrive André Gunthert, uno tra i più attenti studiosi del visuale contemporaneo. Accanto al mezzo di produzione dell’immagine, poi, concorre a completare la metamorfosi della fotografia connessa l’alleanza tra strumenti di comunicazione, messaggeria istantanea e social network come Facebook o Instagram, sui quali l’immagine può essere trasferita istantaneamente attraverso procedure elementari.
Dal punto di vista concettuale, il processo di integrazione della fotografia al sistema di connessione attraverso lo smartphone potrebbe equivalere al processo di miniaturizzazione che ha investito l’orologeria durante tutta la sua storia: dai campanili ai salotti ai taschini dei vestiti, la funzione dell’orologio è gradualmente slittata dalla dimensione pubblica a quella domestica e infine individuale, così come la produzione fotografica, dopo aver occupato la sfera eminentemente professionale, amatoriale/elitaria e infine individuale occasionale (anche nel momento di massima diffusione degli apparecchi fotografici digitali, la realizzazione dello scatto dipende dalla presenza fisica dell’apparecchio), sembra andare occupando ora una dimensione individuale quotidiana (avendo il cellulare sempre a portata di mano, possiamo potenzialmente realizzare fotografie in qualsiasi istante).
Se, da un lato, una delle conseguenze più evidenti di questo fenomeno è l’inarrestabile processo di de-specializzazione della fotografia e la conseguente sovversione del tradizionale paradigma fotografico, dall’altro si apre forse la possibilità di definire un nuovo, peculiare statuto dell’immagine fotografica: “Mentre il primo periodo del web statico era stato connotato come una ‘società di autori’, la capacità di interazione simmetrica promossa dal web 2.0 inducono a descrivere l’attività di pubblicazione on-line come una conversazione – scrive Gunthert – Studiato nel dettaglio dalla pragmatica o dall’etnometodologia, lo scambio orale strutturato dall’interlocuzione è considerato il fondamento della sociabilità […] L’interazione ordinata, simmetrica, aperta e cumulativa che caratterizza la messaggeria istantanea e gli scambi on-line somiglia effettivamente alla sociabilità ugualitaria della conversazione”6. Integrata dell’economia di questo sistema interattivo, l’immagine – che Gunthert, in questo senso, ribattezza immagine conversazionale – risulta investita di funzionalità tutte nuove: alla conversazione sulle fotografie si sostituisce la conversazione con le fotografie, come emerge dallo studio su Flickr condotto da Jean-Samuel Beuscart, Dominique Cardon, Nicolas Pissard e Christophe Prieur7.
Dunque sulle piattaforme sociali parliamo per immagini, parliamo le immagini come un vero e proprio linguaggio, che permette la distinzione tra una dimensione pubblica (qualsiasi immagine condivisa può essere resa visibile a chiunque) e una privata – nonostante il confine tra le due sia quanto mai poroso – e l’adozione di diversi ritmi comunicativi: l’immagine condivisa (o “postata”, calco semantico modellato sull’inglese “to post”) live, nel momento stesso in cui viene scattata, acquisisce un’utilità di primo grado, come unità informazionale potenzialmente molto ricca di dati, e un’utilità di secondo grado come unità dialogica, forma espressiva e avvio di conversazione. A riprova del successo dell’immagine come unità conversazionale, Gunthert osserva una “tendenza all’autonomizzazione della conversazione visiva attraverso piattaforme di raccolta e ridiffusione delle immagini, come Tumblr (2007) o Pinterest (2010), dove il riutilizzo e la circolazione diventano i principali punti di forza della valorizzazione dei contenuti. Una piattaforma dedicata all’immagine connessa come Instagram (2010) permette di assistere all’elaborazione di risposte collettive a un evento comune – fenomeno meteorologico o occasione culturale”8. Infine, nel 2011, la comparsa della piattaforma di messaggeria visuale Snapchat segna un’ulteriore, radicale avvicinamento dell’immagine conversazionale allo statuto universale del linguaggio: programmando la cancellazione automatica dell’immagine inviata, pochi secondi dopo la ricezione da parte del destinatario o dei destinatari (un’immagine “a orologeria”), l’applicazione arriva ad accostare mimeticamente la conversazione per immagini alla conversazione orale – imagines sicut verba volant, potremmo dire mutuando l’antico adagio latino.
D’altra parte, accanto alla metamorfosi spinta all’estremo dell’immagine evanescente, sopravvive forse la più antica prerogativa dell’immagine fotografica, la sua funzione memoriale: nel marasma rizomatico delle immagini scambiate e condivise a velocità vertiginose, fugaci quanto parole, ritroviamo su ogni profilo delle piattaforme sociali la Timeline, che come nei vecchi album archivia cronologicamente le immagini condivise nel tempo e la memoria dei momenti, recuperando una dimensione narrativa (in italiano “Timeline” è tradotto con “Diario”) diacronica, a compensazione della sincronicità estrema dell’immagine live.
Torna alla mente il film di Sophie Calle No sex last night (1996), in cui l’artista documenta, attraverso scatti fotografici e parti filmate, il suo viaggio attraverso gli Stati Uniti in compagnia di Greg Shepard: ogni mattina, l’immagine del letto disfatto e la frase ripresa nel titolo, “No sex last night”, segna la condivisione di un dettaglio intimo, bizzarramente accostato a scene di vita quotidiana, alle immagini degli animali da compagnia di una famiglia di amici o a quelle dell’improbabile matrimonio tra i due, a bordo di una Cadillac, in un drive-in di Las Vegas. L’arte a volte anticipa la realtà, e ogni tanto ce ne accorgiamo: in modo (parzialmente) analogo alla mise-en-scène dell’auto-narrazione per immagini bizzarre e banali, intime e quotidiane dell’opera di Calle, nella Timeline di qualsiasi profilo Facebook le fotografie di gattini o del pranzo impiattato, dell’outfit della serata e perfino i tanto demonizzati, narcisistici selfie sembrano restituirci la capacità del linguaggio iconico di proporsi, per mutuare Michel de Certeau, come una vera “re-invenzione del quotidiano” nella contemporaneità.

 

Note:
1  Lo stesso Fontcuberta ci ricorda che quello della fotografia (tanto analogica quanto digitale) è sempre stato un “bacio di Giuda”, un tradimento nello stesso attimo della dichiarazione d’amore: proprio mentre sembra oggettiva e documentaria, tradisce e consegna agli imbrogli della manipolazione. D’altra parte, aggiunge lo stesso fotografo, non si può negare a certe fotografie digitali un importante statuto documentario – l’orrore di Abu Ghraib, ad esempio, non sarebbe mai stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica senza la fotografia digitale.
2  Prefazione di Michele Smargiassi ad André Gunthert, L’immagine condivisa, Contrasto, Roma 2016.
3  Ibid.
4  Paul Valéry, Scritti sull’arte, Guanda, Milano 1984.
5 André Gunthert, L’immagine condivisa, cit., p. 138.
6 Ivi, p. 144.
7  Jean-Samuel Beuscart, Dominique Cardon, Nicolas Pissard e Christophe Prieur, “Pourquoi partager mes photos avec des inconnus? Les usages de Flickr”, in Réseaux n. 154, 2009/2, pp. 91-129.
8  André Gunthert, L’immagine condivisa, cit., p. 148.

 

Andrea Zucchinali
Laureato in Lettere e Filosofia, frequenta il dottorato
di ricerca in Studi Umanistici Interculturali
(curriculum di Teoria e analisi dei processi artistico-letterari)
presso l’Università degli Studi di Bergamo.
Il suo ambito di ricerca principale è
la Storia dell’arte contemporanea e della cultura visuale.