Ci dipingono ciechi

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[11 febbraio – 16 aprile 2022 * giovedì, venerdì, sabato 14 – 19]
Inaugurazione venerdì 11 febbraio, dalle 14 alle 21
Cinzia Benigni, Simone Bergantini, René Boyvin, Martina Brembati e Giulia Maiorano,
Italo Calvino, Gert Hofmann, Federica Mutti, Elena Radice e Mattia Capelletti, Daniele Re,
Ferdinando Scianna, Rokhaya Sofia Thiam, Serena Vestrucci, Stefan Zweig,
Anonimo incisore da Lucas van Leyden, Anonimo francese

 

Ci dipingono ciechi: incapaci di vedere, ci dipingono, fanno di noi ritratti che non rispondono al vero, ritratti che non vedono e che noi non riusciamo a vedere.
Ci dipingono ciechi: ci ritraggono come se fossimo ciechi, incapaci di vedere, fanno di noi ritratti che non rispondono al vero, ritratti in cui non ci rivediamo.
Ci dipingono ciechi: ci ritraggono come se ci rifiutassimo di vedere, fanno di noi ritratti che non rispondono al vero, accuse di cecità colposa.

Se ogni mostra, per sua natura, espone una visione, la vera sfida è mostrare la non-visione.
Cosa offre alla vista questo non-vedere? I resti di un abbaglio, ciò che si crede di vedere ma in realtà non è; ciò che si crede di aver visto, ma forse non è mai stato.
Anche il frutto di un’iper-vista non è più visione, bensì costruzione, illusione, di nuovo abbaglio.
E la cecità può non affliggere gli occhi soltanto, ma anche l’anima, lo spirito. La si intende allora come cecità metaforica, quella di cui si accusa chi non vuol vedere, o coloro a cui vedere non basta per credere. Sembra infatti non vedere chi non crede nella vista, chi si fida solo di ciò che è tangibile, del toccare per credere. Eppure non si dica che non vede per niente: non si affida agli occhi, però si fida delle mani, delle dita ficcate nelle piaghe. Mani che tastano, che toccano, indicano, additano, scrivono e svelano, dita che mostrano quel che non si vede.
Del non-vedere in senso stretto si suol dire invece che è un vedere altro, in altro modo. Se a non funzionare sono gli occhi di chi è ritratto, permane la fede cieca del soggetto in un’immagine di sé che non gli sarà mai data; se non funzionano gli occhi di chi ritrae, a fare l’immagine è il suo desiderio di possesso del ritratto – soggetto e rappresentazione.
C’è infine il non-vedere di chi ha occhi e vista, ma non ha visione: vede male, in malo modo. Chi guarda da troppo vicino, chi da troppo lontano, chi attraverso lenti falsarie e chi si scorda di spostare di tanto in tanto lo sguardo con tutti gli strumenti annessi e connessi.
Ecco cosa offre alla vista questa mostra che si ostina a fissare il non-vedere.

 

Luogo_e, Ci dipingono ciechi, veduta dell’installazione

 

Martina Brembati e Giulia Maiorano, Faro, 2016
documentazione della performance Faro, Cavallerizza di Torino, 2016
stampa Fine Art su carta cotone Photo Rag, su alluminio, 28×42 cm
courtesy le artiste

Il faro è la guida, il punto di riferimento: illumina la rotta, può segnalare la meta o un punto fermo nel tragitto. Ma quando in scena entrano due fari, chi guida e chi è guidato? Le due artiste diventano fari, il loro viso scompare dietro una sfera luminosa. Lo sguardo, secondo dove è diretto, illumina. Quello stesso sguardo, ovunque sia rivolto, è però abbagliato: mostra ma è impossibilitato a vedere. Vede la luce, ma è impossibilitato a mostrarsi.

 

Daniele Re, Sfidiamo il tempo, 2016
stampa a getto d’inchiostro su carta cotone, 42×60 cm
courtesy l’artista

Un foro stenopeico, pellicola fotografica e ventiquattro ore di esposizione: è l’occorrente per un’iper-vista, che superi i limiti umani in termini di spazio e tempo. Se si riuscisse a non distogliere lo sguardo dal panorama per ventiquattro ore, se non si fosse costretti a sbatter le ciglia e a riposare gli occhi, se la retina non si sovrascrivesse in continuazione, ma continuasse un disegno progressivo di ciò che cattura aggiungendo ancora e ancora, si potrebbe vedere con i propri occhi ciò che questa fotografia mostra: la traccia del passaggio di Sole e Luna che contemporaneamente attraversano il cielo, che convivono nella stessa porzione di firmamento. Ma questa iper-vista non sarebbe più vista, bensì un inganno dell’occhio, un abbaglio.

 

René Boyvin, copia in controparte da Rosso Fiorentino, La vittoria sull’Ignoranza, XVI sec.
bulino, lastra 28×42 cm
courtesy Galleria Il Bulino Antiche Stampe

Basata su un disegno preparatorio perduto di Rosso Fiorentino (1494-1540), la stampa riprende in controparte il soggetto dell’affresco L’illuminazione di Francesco I realizzato nella Galleria di Francesco I a Fontainebleau. Secondo le interpretazioni più accreditate, la folla di sguaiate figure bendate rappresenterebbe i numerosi vizi nati dall’ignoranza, rappresentata dalla grottesca figura centrale che si fa strada con l’aiuto di un lungo bastone. In lontananza, Francesco I con armatura e spada entra invece con fierezza nel tempio di Giove, passando tra due imponenti urne, contenitori del bene e del male. La mancanza di vista e di visione è in questo caso una cecità metaforica: tutta intellettuale, morale.

 

Anonimo incisore, copia in controparte da Lucas van Leyden, San Tommaso, XVI sec.
bulino, immagine 11,5×7 cm
collezione E. Belotti
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Anonimo francese, San Tommaso, XIX sec.
santino popolare, litografia dorata, 7,8×6,1 cm
collezione E. Belotti

Nel Vangelo secondo Giovanni è raccontato il famoso episodio dell’incredulità di Tommaso, l’apostolo che dubitando dell’avvenuta risurrezione di Gesù lo incontra e viene da lui invitato a tendere le mani e a infilare le dita nel suo costato, per poter “smettere di essere incredulo e divenire credente”.
Due rappresentazioni di San Tommaso aprono la sezione della mostra dedicata alla visione che non si fida della sola vista, che ha bisogno di toccare per credere. È la sezione del vedere con le mani ciò che le dita indicano, quando non si può, non si vuole o non si riesce a credere ai propri occhi.

 

Cinzia Benigni, Senza titolo, 2015
dita indice in vetro rosa soffiato, dimensioni variabili
courtesy l’artista

Cinque dita, ma tutte indice. Non dita in carne e ossa: dita in vetro soffiato, trasparenti – ci si vede attraverso. Dita fragili, frangibili, possibilmente taglienti come ogni giudizio. Sono dita che indicano, dita che mostrano, tutte puntate. Dita che additano, che vorrebbero poter toccare.

 

Rokhaya Sofia Thiam, We were never really here at all, 2021
lavagna e gessetti, 100×130 cm
courtesy l’artista

Una classica lavagna di scuola, con i suoi gessi. Ma qui i gessi sono quel che si intende in arte, ovvero calchi – nella fattispecie, calchi di dita. Falangine e falangette. Dita che scrivono e scrivendo mostrano ciò che scrivono: lo indicano, ci puntano il dito. Dita che toccano ciò che tu scrivi, che ti costringono a leggere ciò che hai scritto. Tengono il segno. Sono dita che, nel tracciare e lasciare traccia, perdono corpo. Si grattano le unghie, si consumano i polpastrelli.

 

Simone Bergantini, Addiction, 2013
stampa a getto d’inchiosto su carta cotone, 41×31,5 cm, PdA
courtesy l’artista e Galleria Giampaolo Abbondio

Toccare l’immagine, toccare e credere: azioni che rimandavano un tempo al rapporto con l’icona, con l’immagine sacra. Oggi il luogo dell’immagine toccata, dell’immagine sacra nel suo essere dissacrata, è invece lo schermo. L’artista sottrae allora l’immagine toccata: spegne lo schermo che si fa esso stesso immagine, fotografia. Addiction ci parla di una nuova fede, che è una dipendenza. Cattura le tracce lasciate dai polpastrelli sul vetro, dalle dita trascinate sulle icone delle app. Le impronte digitali che incastravano i colpevoli ora sbloccano schermi che sembrano ubbidire loro. Così piace credere, con ubbidienza.

 

Gert Hofmann, La parabola dei ciechi, 1985
Racconti edizioni, collana Scarafaggi, Roma, 2019

Nel 1568 Pieter Bruegel il Vecchio (1525/30 ca.-1569) dipinge La parabola dei ciechi, traducendo in immagine l’episodio del Vangelo secondo Matteo in cui Cristo, riferendosi ai farisei, pronuncia la famosa frase “Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso.” Nel 1985 lo scrittore tedesco Gert Hofmann guardando il dipinto immagina il cieco peregrinare dei sei soggetti, con le loro peripezie. Nel libro gli sventurati sono intenti a trovare la via per raggiungere la casa del pittore che dovrà ritrarli nell’atto di cadere. Ne deriva un racconto amaro in cui ogni punto di riferimento svanisce, ma permane nei protagonisti la fede nell’immagine, nell’opera del pittore, in quel ritratto di sé che nessuno di loro potrà mai vedere.

 

Serena Vestrucci, Notte in bianco, 2015
stampa fotografica, lana, due giorni, 27×22,5 cm
courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri

Due occhi di fotografia affiorano da dietro una maglia spessa, attraverso due fori. Senza colore, sono gli occhi in bianco e nero di un volto che non ci è dato conoscere. Alla tela si sostituisce una materia morbida, calda. Il ritratto è coperto, sottratto alla vista, come avvolto in una coperta, o nascosto da un passamontagna. È un ritratto cieco come un vicolo, che non lascia guardare. Eppure guarda lo spettatore, non distoglie lo sguardo.

 

Ferdinando Scianna, Jorge Luis Borges a Palermo, 1984
stampa fotografica su carta baritata, 38×26,5 cm
courtesy l’artista

Nel marzo 1984 il fotografo siciliano Ferdinando Scianna ritrae lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) in visita a Palermo. Nella fotografia presentata gli occhi di Borges, ormai da anni non più capaci di vedere, sono come proiettati verso un altrove lontanissimo. Seduto dietro una vetrata, lo scrittore tiene le mani salde sul suo bastone, punto di riferimento e guida anche in questo ritratto dalla geografia vertiginosa. L’interno che trapela si sovrappone a ciò che il vetro riflette dell’esterno: la mappa di un luogo visibile solo grazie alla fotografia.

 

Italo Calvino, La speculazione edilizia, 1957
Mondadori, Oscar moderni, Milano, 2018

Anni Cinquanta, Riviera ligure. L’intellettuale Quinto Anfossi, afflitto dalla crisi di pensiero della società dell’epoca, fa ritorno nel suo paese natio dove si mette in affari con un impresario dedito alla speculazione edilizia. Quinto non ne ricava che guai e insoddisfazioni, acuiti dal confronto con due vecchi amici: il filosofo Bensi e il poeta Cerveteri. Calvino ne tratteggia una descrizione singolare, che mette in evidenza due metaforiche deformazioni dei loro sguardi: “Erano entrambi strabici, ma il filosofo era strabico all’infuori […]; il poeta invece era strabico all’indentro […]”.

 

Serena Vestrucci, Batter d’occhio, 2022
battiti di ciglia su tela, tempera, quattro giorni, 70×50 cm
courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri
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Serena Vestrucci, Batter d’occhio, 2022
battiti di ciglia su tela, tempera, quattro giorni, 70×50 cm
courtesy l’artista e Galleria Renata Fabbri

Le ciglia usate come pennelli, tempera nera, il reiterarsi dello sbatter di palpebra che si fa pennellata. Dipingere con gli occhi, tuttavia dipingere senza vedere: pur con gli occhi aperti, si è troppo vicini per guardare. Il risultato è un pattern, composizione astratta sulla tela bianca, l’impronta del continuo aprirsi e chiudersi degli occhi. Neanche lo spettatore mette facilmente a fuoco: gli sembra di vederci doppio, di non vedere ciò che guarda, e poi di non capire quando finalmente vede.

 

Cinzia Benigni, Senza titolo, 2017
occhi femminili derivati da due candele di cera, dimensioni variabili
courtesy l’artista

Due avanzi di candela messi a parete ai nostri occhi diventano subito occhi – occhi femminili, se l’artista vi aggiunge lunghe ciglia finte. La tattilità della cera ci ricorda le candele che i due occhi sono stati un tempo, pur non avendole mai viste nello specifico. E il ricordo ricostruito aggiunge descrizione a quello sguardo lattiginoso: ci parla di occhi che si consumano, di occhi già consumati. Ci dice delle fiamme negli occhi, di occhi un tempo in fiamme, infiammati. Occhi che si sono sciolti, che hanno gocciolato, forse pianto; occhi che sono andati persi, almeno in parte. Occhi che tuttavia ci fissano, e chissà se vedono, cosa vedono.

 

Stefan Zweig, La collezione invisibile, 1925
Pagine d’Arte, collana Sintomi, Tesserete (CH), 2018

Uno dei più grandi omaggi letterari all’arte del collezionare. Ingrediente principale: un collezionista cieco da tempo, così innamorato delle sue stampe d’arte antica da ricordarle a memoria fin nei più minimi dettagli. Altri ingredienti: familiari che per fare fronte ai problemi economici hanno scialacquato il tesoro del collezionista; passepartout che ormai incorniciano fogli bianchi, o riproduzioni segnaposto per ingannare le dita del non vedente. Nessuno può rivelare al collezionista cieco l’amaro segreto, nemmeno l’antiquario venuto in visita da Berlino: come confessargli che le immagini che, senza gli occhi, lui vede ancora nitidamente sono ormai invisibili per i più?

 

Elena Radice e Mattia Capelletti, Jalfa, Jerd, 2016
traccia audio, 9’54’’, testo Elena Radice e Mattia Capelletti, voce Noemi Radice, musiche Elena Radice
realizzato per Mnemoscape Magazine 4 – “On remoteness”
courtesy gli artisti

Mettendo in opera un misterioso protocollo di attenzione sostenuta, gli autori propongono a un gruppo di persone un esercizio basato sull’esperienza collettiva di un oggetto creato per essere visto. Ciò che i partecipanti osservano è sottratto alla nostra vista, alimentata solo dalle parole della traccia audio per via immaginativa. Il testo recitato è la rielaborazione degli appunti di tutti i partecipanti in una prosa a tratti incoerente: senza immagini esposte se ne evocano infinite, o almeno tante quante gli spettatori che la voce raggiunge.

 

Federica Mutti, Riprogrammatica, 2019
guanti in raso, lunghezza 3 m ca.
realizzato con il supporto del laboratorio di Stem Cell Biology and Cancer Research del CNR di Milano
courtesy l’artista

L’artista indaga la riprogrammazione cellulare: dal punto di vista del DNA le cellule di un corpo adulto e sano sono tutte uguali, eppure la loro funzione è specifica. La riprogrammazione è una sorta di rieducazione: la cellula regredisce allo stadio embrionale, muta forma, cambia mestiere – la pelle, ad esempio, può imparare a esser cervello, e viceversa. Nella mente dell’artista nascono immagini di mani che pensano e vedono, ipotesi di cervelli con dita e tatto.