Gino il mago • Michele Savino

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L’opera d’arte infatti obbedisce a leggi proprie;
decida o no di adattarsi a finalità magiche,
non possiamo dimenticare che essa
trae comunque la propria origine dalla magia stessa.

André Breton


Nelle opere di Gino De Dominicis il mistero oscilla tra due aspetti differenti ma complementari: da una parte il gioco di prestigio o illusione, di cui abbiamo proposto una lettura nell’articolo Il Mago Gino del 2021, e dall’altra la magia vera e propria, non più trucco, ma prodigiosa creazione demiurgica, che infonde la vita nella materia generando l’opera d’arte.
Nella ricerca delle origini ancestrali della civiltà De Dominicis recupera quel pensiero mitico-simbolico proprio di tutte le popolazioni arcaiche. Il filosofo tedesco Ludwig Klages ha individuato nel pensiero simbolico il pensiero originario che procede per immagini e che percepisce la realtà come una totalità in continuo divenire; nel pensiero simbolico la parola è quella creatrice del linguaggio poetico e l’uomo è legato all’immagine da una fede di natura magica: l’uomo arcaico vive nella realtà delle immagini, dove ogni immagine è considerata più reale della cosa stessa.
In La storia dell’arte Gombrich racconta di un artista europeo che aveva ritratto il gregge di alcuni indigeni africani, allora questi, preoccupatissimi, gli chiesero di che cosa avrebbero vissuto se lui portava via le bestie. Nella cultura mesopotamica le statue degli dèi avevano un nome proprio, venivano periodicamente lavate e vestite e quotidianamente ricevevano pasti; all’interno del tempio c’erano persino dei musicisti che suonavano per intrattenerle.
Nella produzione pittorica degli anni ’80 e ’90 De Dominicis si riappropria di questa ancestrale fede nelle immagini, arrivando a concepire le sue opere come potenti presenze autonome, magiche entità viventi. Nella nostra cultura occidentale, dove il pensiero logico-razionale porta l’uomo a suddividere il mondo in oggetti e il pensiero in concetti, sembra non esserci più posto per la realtà delle immagini; De Dominicis ci suggerisce come competa all’artista, in qualità di demiurgo e creatore, la salvaguardia del potere e dell’autonomia delle immagini.
In principio era l’immagine si intitolava infatti la personale del 1982 presso la Galleria Sperone di Roma, dove era esposto un grande dipinto che mostra un volto femminile dall’evidente iconografia sumera: il principio della civiltà è quell’orizzonte atavico di magica creazione dove l’immagine si afferma come presenza reale, costantemente immersa nel flusso perpetuo dell’energia creatrice. Al centro della stanza, di fronte al dipinto, De Dominicis aveva posto un water, concepito non come readymade duchampiano, ma come mero e comunissimo water: la nostra quotidiana realtà degli oggetti al cospetto della primordiale realtà dell’immagine.
Per Gino De Dominicis l’opera d’arte, in quanto creazione poietica, è oggetto vivente; nel 1997 l’artista realizzò infatti una piccola scultura d’argilla vagamente antropomorfa e decise di collocare questa sua creatura in una teca di vetro dotata di fori per permetterle di respirare.
Questo potere attribuito all’esistenza dell’opera rende superflua o totalmente irrilevante la sua esposizione; De Dominicis, in un mondo ossessionato dalla visibilità e dall’evidenza empirica, afferma che le opere d’arte non siano fatte per essere viste o mostrate, bensì per esistere una volta create. L’artista, con la consueta illuminante ironia, sostiene che siano state proprio le sue opere a rifiutarsi di partecipare a certe mostre e lui si è così limitato ad accontentarle.
De Dominicis risale quindi a quelle culture arcaiche dove certe immagini erano ritenute troppo potenti per essere guardate ed erano visibili solo agli addetti alle cerimonie magiche, arrivando fino alla civiltà egizia dove le pitture e i rilievi che decorano le tombe venivano realizzati per non essere mai visti da occhio umano, essendo rivolti, sigillata la tomba, all’anima del defunto, unico destinatario di quelle immagini la cui funzione era esclusivamente ultraterrena. Anche nell’antica Mesopotamia le opere d’arte destinate alle tombe reali non erano create per essere viste, ma per agire magicamente nell’aldilà.
Questo valore cultuale dell’immagine è strettamente legato al suo potere magico, alla sua autonoma capacità d’azione; le statue votive sumere, raffiguranti il fedele in atto di preghiera, venivano donate agli dèi come veri e propri sostituti del fedele stesso, immagini operanti, finalizzate a protrarre la devozione nel tempo, a continuare a pregare in eterno. I Sumeri consideravano l’immagine un surrogato reale del soggetto rappresentato, un magico doppio dotato di vita propria invece che una copia; tra la magia e l’immagine intercorre un legame primordiale e opportunamente Klages ha parlato di incantesimo magico dell’immagine.
In una fotografia del 1982 intitolata L’artista e il suo doppio De Dominicis compare affiancato da una misteriosa creatura sumera da lui disegnata sulla fotografia: nella realtà delle immagini l’immagine è reale in quanto gemello del soggetto sdoppiato, non sua imitazione, ma suo sostituto vivente.
Nell’aprile del 1970 De Dominicis presentò la sua celebre opera Lo Zodiaco nell’omonima mostra presso la galleria L’Attico a Roma: l’artista aveva materializzato gli invisibili segni zodiacali, rendendoli visibili sotto forma di figure reali; comparvero qui per la prima volta i Gemelli viventi ripetutamente esposti negli anni successivi e che costituiscono la più evidente esemplificazione del tema del doppio.
L’invisibilità è una prerogativa della divinità; nella cultura sumera le statue degli dèi erano la manifestazione materiale della divinità invisibile, presente così sotto forma di immagine. L’arte, invece di imitare la realtà, aveva il compito di concretizzare ciò che trascende il visibile, di veicolare l’epifania del divino.
De Dominicis dedicò un suo grande dipinto a una celebre scultura sumera raffigurante una testa di donna denominata La signora di Warka: l’artista intervenne su un ingrandimento fotografico di questa scultura e dipinse nelle vuote orbite della donna due occhi arrossati, lucidi ed umanamente vivi. Quest’opera venne esposta nel 1983 alla Galleria Sprovieri di Roma, dove era posta all’interno di una sala chiusa e poteva essere osservata solo tramite il foro della serratura della porta: l’opera d’arte, come una statua di culto nella cella di un tempio, necessita di uno spazio privato per conservare il suo potere.
L’intenzione di De Dominicis di occultare l’opera per custodire la magia dell’arte trae la sua origine dal desiderio arcaico, proprio delle prime civiltà mediorientali, di celare l’immagine cultuale all’interno di un ambiente sacro separato dal mondo esterno, dove potesse indirizzare la sua energia verso il trascendente.


Bibliografia
Bahrani, Zainab, La Mesopotamia, Einaudi, Torino, 2017.
Bonito Oliva, Achille (a cura di), Gino De Dominicis. L’immortale, Electa, Milano, 2010.
Klages, Ludwig, La realtà delle immagini, Marinotti, Milano, 2005.
Tomassoni, Italo, Gino de Dominicis. Catalogo ragionato, Skira, Milano, 2011.


Michele Savino
Nato a Bergamo nel 1989, ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo e all’Accademia di
Brera. Scrive, dipinge e coltiva bonsai.