_e solo GIOVANNI DE FRANCESCO

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[22 luglio – 25 settembre 2021 * giovedì, venerdì, sabato: 14 – 19]
Inaugurazione giovedì 22 luglio, dalle 14 alle 21

 

La “e” di luogo_e questa volta non spazia, ma si focalizza. Non dilata la visione, ma si concentra. Non pluralizza, non ha uno sguardo a volo d’uccello, ma più radente. Cerca nel particolare la sua pluralità. Con il nuovo formato di mostre “_e solo”, che di tanto in tanto entrerà nel programma espositivo consolidato, luogo_e articola la sua attenzione su un unico autore, in una mostra personale.
Imita l’occhio di bue che a teatro illumina uno degli attori sul palco: non lo isola, lo indica.
Come fa di solito costruendo mostre collettive attorno a un tema, luogo_e anche nel formato “_e solo” si fa aiutare dalla letteratura e dalla storia dell’arte, nella convinzione dell’inscindibilità delle varie forme artistiche che continuamente si contaminano. Così l’artista di “e_solo” non è da solo, opere d’arte antica e opere letterarie lo accompagnano.
E c’è molto altro nel portfolio degli artisti di volta in volta selezionati: le opere di “e_solo” non sono le sole. Luogo_e ne espone una selezione, sceglie nella consapevolezza che una mostra è sempre un’interpretazione. Ogni “_e solo” si assume il rischio di sembrare il trailer di un film, invece vuole essere mostra: presenta alcuni frammenti per parlare di un tutto.

La prima mostra “_e solo” è quella di Giovanni De Francesco, che torna nella stessa sede in cui la Libreria Ars numerose volte aveva presentato le sue opere. Luogo_e, con un dichiarato lavoro di montaggio, individua nella ricerca dell’artista quattro nuclei tematici, nei quali mette in relazione opere realizzate in tempi più o meno recenti, con tecniche e linguaggi differenti.
Di Giovanni De Francesco luogo_e espone il rosa, i nasi, i ritratti, il gesso, la pittura, l’amicizia, la pelle, gli occhi, le lacrime, la scultura, il doppio, la visione, gli affetti, la materia, le allusioni.
Le cose che sono anche qualcos’altro.

[Accompagnano la mostra Etienne, Honoré de Balzac, Leonardo Da Vinci, Jacques Derrida e Rembrandt]

 

 

1. Vaso bifronte, 2018
gesso ceramico 50x20x20 cm
collezione privata


_e un vaso, e due teste
Di un vaso si apprezzano prima la forma, il colore, la decorazione – ciò che è esterno, involucro, superficie. Poi si guarda il vuoto che ha dentro, per riempirlo.
I vasi di Giovanni De Francesco non sono però vuoti da riempire, sono pieni senza vaso: calchi in gesso di cavità vascolari. Riempiendosi il vuoto sparisce, e così facendo compare, prende corpo, acquista peso.
Vaso bifronte è la traccia visibile della capienza massima di un vaso inservibile, eternamente pieno. Il contenuto straborda: niente più fiori. C’è materia, è scultura. Ne emerge una forma organica, una testa bifronte, con due volti affacciati sulla soglia di luogo_e. Un volto guarda fuori dalla vetrina, cerca lo sguardo del passante; un volto è rivolto verso l’interno, sorride allo spettatore della mostra.
Della ricerca di Giovanni De Francesco qui troviamo già il pieno e il vuoto, la scultura, il gesso, la materia, il volto, la maschera, il doppio, il rosa, la pelle, le allusioni, l’ambiguità.

 

 

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2. Fotografia stereoscopica, 2010
fotografia su carta cotone, 40,5×49,5 cm

3. Scultura aposematica, 2016
gesso ceramico, ossido di ferro, occhi in plastica, 15x25x20 cm

4. Stille, 2005
dieci fazzoletti di lino ricamati, 40×40 cm

5. Lacrima, 2008
gesso scagliola, 4x8x5 cm

6. Jacques Derrida, Memorie di cieco (1990)
Milano, Abscondita, 2015


_e gli occhi, e le lacrime
Nella ricerca di Giovanni De Francesco è frequente la presenza della maschera, che cristallizza l’espressione, ne contraddice l’espressività.
Gli occhi si sottraggono al dominio della maschera, restano scoperti in favore della vista. Anzi, delle viste. Nella visione (umana) è implicito il tema dello sguardo doppio, che si sintetizza in immagine unica. A questo meccanismo allude Fotografia stereoscopica (2010), immagine allo stesso tempo sola e doppia, esplicita e ambigua. Suggerisce un cielo stellato, si rivela un frammento di nevicata.
Ogni immagine si moltiplica per il numero degli occhi che la guardano. E l’artista per sua natura fa nuove le immagini ad ogni sguardo. Sogna d’essere tutt’occhi, come la Scultura aposematica (2016), sorta di testa che sfugge alla forma e semina sguardi in ogni direzione.
Alla capacità primaria della vista si associa istintivamente l’occhio, ma l’occhio, che non sempre vede, sa sempre piangere. In Memorie di cieco (1990) Derrida scrive: […] in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. E ancora: […] le lacrime dicono qualcosa dell’occhio che non ha più nulla a che vedere con la vista, a meno che non la rivelino ancora velandola. Se ne deduce che a sfuggire alla maschera non siano tanto gli occhi e la vista, quanto le lacrime che sgorgano dalle cavità oculari. Non si possono contenere né per gioia, né per dolore.
In Stille (2005) Giovanni De Francesco ricama con del filo bianco su nove fazzoletti di lino bianco sistemi ottico-lacrimali animali simili a quello umano. La lacrima non è quindi proprietà dell’uomo, tuttavia indiscusso maestro del pianto. Sempre nello stesso testo Derrida scrive: […] se gli occhi di tutti gli animali sono destinati alla vista […], soltanto l’uomo sa andare al di là del vedere e del sapere, poiché egli soltanto sa piangere.
Bianco su bianco, l’artista rende quasi invisibile il sistema di visione e l’apparato di lacrimazione, ma irrobustisce le lacrime, non permette loro di scomparire, di essere assorbite dal fazzoletto. Il decimo fazzoletto è infatti nero, vi sono ricamate nove lacrime bianche, ben visibili, eloquenti.
Nel 2008 Giovanni De Francesco solidifica la Lacrima, la modella col gesso, materiale dei calchi, che per tradizione appartiene alla riproduzione fedele dei corpi. Un monumento alla lacrima, fragile, che non può più cadere.

 

 

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7.
0:18:14 (D.M.G), 2009
miniDV colore

8. Serie di ritratti, 2016/2021
acrilico su tavola, da 18×13 cm a 29,5×23,5 cm

9. Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto (1831)
Firenze, Passigli Editore, 2001


_e ritratti, e ritrattati
Si impara a colorare l’incarnato scegliendo il cosiddetto “rosa pelle” o “rosa carne”, un colore per convenzione giudicato realistico nel confronto con l’altro rosa della confezione di pastelli. Ma il ritrattista capisce presto che il “rosa pelle” non esiste, per la pluralità delle cromie delle pelli presenti in natura e perché una pelle, pur quando “rosa”, è fatta di toni e sottotoni, di strati sommersi che trapelano e di strati superficiali che mutano: la pelle arrossisce, impallidisce, ingrigisce, si illumina e si spegne.
Le tavole di Giovanni De Francesco sono quasi tavolozze. I colori che nei ritratti provano in genere a stratificarsi in una pelle “realistica” qui si accostano, si sovrappongono, ma non si amalgamano. Restano materia, pittura, e si coprono a vicenda. Riemergono gridando o sopravvivono sussurrando.
Il ritrarre è dunque solo la prima fase degli esercizi pittorici di Giovanni De Francesco. A seguire c’è il “ritrattare”: coprire, andare sopra, aggiungere colore e colori, manipolare, talvolta fino quasi a cancellare.
Ne Il capolavoro sconosciuto di Balzac (1831) un’operazione simile è spinta agli eccessi dal protagonista Frenhofer, pittore seicentesco immaginario, fiero autore di un misterioso ritratto di donna che appare all’occhio come un’astratta muraglia di pittura. Solo a uno sguardo più attento emerge in un angolo un piede delizioso, un piede vivo. Ed è quest’ultimo a suggerire ai primi due spettatori, a loro volta pittori, l’intuizione che c’è una donna là sotto.
Nei ritratti-ritrattati di Giovanni De Francesco sono i nasi a svelare il processo. Elementi fulcro della ricerca dell’artista, i nasi – arrossiti, imbizzarriti – escono fuori dalle facce originarie, vi si ribellano, sopravvivono ai volti anche quando questi si fanno materia e quando si smaterializzano.
Il ritratto realistico non è il fine ultimo di Giovanni De Francesco, che pur dinnanzi al modello, fisicamente o spesso virtualmente tramite una webcam, osserva i volti di amici e conoscenti per (s)comporli sulla tavola. È il processo a farsi opera, la posa – intesa come tempo e memoria di posa.
Ce lo conferma l’opera 0:18:14 (D.M.G) (2009). Il modello ha ricevuto in dono il ritratto realizzato dall’artista. Ciò che resta al pubblico è un video che, a camera fissa, documenta la posa e tutto ciò che le sfugge: le lievi variazioni di postura, di espressione, di resistenza fisica ed emotiva.

 

 

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10. Etienne d’après Honoré Daumier, Tu t’amuses trop!, 1868
litografia, 16×22 cm
courtesy Galleria Il Bulino Antiche Stampe

11. Piedone, 2020
gesso ceramico, legno d’ulivo, 100x20x45 cm

12. W Stefano, 2018
gesso ceramico, 40x18x21 cm

13. Autoritratto in forma di ramo, 2018
fimo e legno, 33x11x11 cm

14. Figura a quattro teste, 2018
gesso ceramico, 40x14x14 cm

15. Autoritratto, 2017
gesso ceramico, 38x20x25 cm

16. Oi oi (Vecchio con bastone), 2020
gesso ceramico, legno, 28x12x16 cm

17. Testa, 2021
gesso ceramico, legno, 40x20x20 cm

18. Signor fungo, 2021
gesso ceramico, legno, 55x12x17 cm

19. Madre, 2021
gesso ceramico, legno, 40x12x12 cm

20. Ninfa, 2021
gesso ceramico, legno di oleandro, 42x14x14 cm

21. Naso, 2021
calco in gesso, 5,5x4x4,5 cm

22. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura (XVI secolo)
Firenze, Milano, Giunti, 2019


_e i nasi, e i nasuti
Nasi dritti, storti, concavi o convessi. Nasi lunghi, corti, appuntiti o gobbi. Leonardo da Vinci nel suo Trattato della pittura presenta una rassegna di tutti i possibili nasi che il ritrattista può trovarsi di fronte. Del resto in un volto il naso è uno degli elementi più caratterizzanti, di fronte e di profilo.
Proprio i nasi, già esuberanti ed egocentrici nei suoi ritratti bidimensionali, diventano protagonisti nelle sculture di Giovanni De Francesco (2017/2021). Rosa, uniche rimanenze di facce senza più volti, sfuggono al gesso e alle ingessature. Tutto è materia, è corpo. Protuberanze, escrescenze impertinenti e allusive, i nasi si ergono su piedi enormi e basamenti, si mescolano a funghi, corna, ed estroflessioni di altra natura. Teste/nasi e piedi non sono più inframezzati da busti e arti, sostituiti da ramoscelli in figure esili, ammiccanti e fragili, di reminiscenza giacomettiana.
Sulla parete di fondo sbuca il Naso dell’artista (2021). L’esattezza del calco non scongiura l’aspetto di un naso finto, che di nuovo rimanda alla maschera, al camuffamento, al teatro – altro ambito molto caro a Giovanni De Francesco.
E a teatro è ambientata la litografia Tu t’amuses trop!, realizzata nel 1868 da tal Etienne, a partire da un disegno di Honoré Daumier. È uno degli attori raffigurati, con espressione caricaturale, a osservare due spettatori che, in abiti borghesi, paiono più mascherati degli attori stessi. Protagonista indiscusso è il naso di uno dei due, tanto evidente da apparire finto, da trascinare nel regno del camuffamento anche i baffi e gli occhiali che lo accompagnano.

 

 

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23. Mattarello (Suite), 2011
legno smaltato, 300×6,5×6,5 cm

24. Suite, 2011
gesso scagliola, resina, 21x50x30 cm

25. Turtlen, 2012
fimo, misure variabili

26. Bildung, 2011
cera, inchiostro, 18x18x21 cm

27. Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, La madre di Rembrandt
con copricapo all’orientale, 1631
acquaforte, stato II/IV, 15×13,5 cm
courtesy Galleria Il Bulino Antiche Stampe


_e materiale, e mater
Da mater, madre, sgorgano le parole “materia” e “materiale”.
La quinta sezione della mostra di Giovanni De Francesco è una raccolta di materiale nato in parte per una mostra, Suite, dedicata nel 2011 dall’artista alla madre di origini emiliane. Il mattarello, strumento rappresentativo delle sue radici gastronomiche e del suo ruolo domestico, è trasformato – si ingrandisce, viene frammentato, colorato, estetizzato, esposto. Parla ora una lingua ibrida: da un lato è un lessico affettivo, familiare, con una patina di malinconia dell’infanzia; dall’altro allude a un mondo adulto e di nuovo al corpo, ai corpi.
Ai mattarelli si accompagnano dei tortellini, Turtlen (2012), magistralmente realizzati dall’artista con la madre, secondo la tradizione. Ma l’impasto è di fimo colorato, i colori sono quelli della pelle, delle pelli. Il cibo diventa corpo, il cibo-corpo si fa opera. Ancora una volta ciò che sembra qualcosa è qualcos’altro, come in Bildung (2011), calco di imbuto fatto di cera, riempito come il Vaso bifronte, inservibile, non più imbuto. Permane però la traccia di un risucchio, del moto e della funzione d’origine, che in questo dialogo attorno ai corpi e al materiale materno finisce per rimandare al negativo di un seno, fonte prima di nutrimento.
Un omaggio alla madre, si diceva, a cui si somma quello che luogo_e azzarda accostando a questa “materia materna” un ritratto alla madre realizzato dal maestro dell’autoritratto, Rembrandt.