Il silenzio è cosa viva • Alberto Ceresoli

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Che cos’è il silenzio? Dove lo possiamo cercare? Dentro, fuori, sopra, sotto, intorno? Mi pongo queste domande e comprendo come andare alla ricerca del silenzio possa portare su cammini tortuosi. Credo che quando questo accade, come sta accadendo al sottoscritto, ci si possa già ritenere fortunati, perché sì, oggi anche solo permettersi di andare alla ricerca del silenzio può considerarsi una fortuna. La fortuna a cui mi riferisco è quella del riuscire a trovare uno spazio di azione rivolto all’ascolto e per riuscire a fare ciò è necessario trovare il modo di allentare quella rete fittissima di attività in cui siamo imbrigliati h24. La fortuna a cui mi riferisco è quella della possibilità del tempo libero, la fortuna di avercelo o di essere riusciti a ottenerlo. Il tempo libero a cui mi riferisco non è ovviamente quello che oggi viene spesso inteso come risorsa economica su cui investire.

Ho ordinato in biblioteca Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani (Einaudi, 2018). Mi approprio del titolo del libro perché mi consente certe digressioni di pensiero, di fare dei collegamenti con diversi autori e di mettere nero su bianco delle riflessioni scaturite da alcune esperienze personali, meditazioni e letture che spero possano trovare nella scrittura una sintesi di senso. Leggiamo in questo titolo una descrizione del silenzio, un’enunciazione: Il silenzio è cosa viva. Il titolo di questo piccolo saggio mi riporta con il pensiero alle teorie di John Cage sull’utopia del silenzio assoluto. Emblematici i brani 4’33” e Waiting in cui ad ogni riproduzione si può cogliere qualcosa di diverso: il respiro del musicista, il respiro di chi ascolta, i rumori della stanza, degli strumenti ecc. Il silenzio che ascoltiamo nella musica non suonata del compositore statunitense è pieno di possibilità. In quel silenzio c’è vita, quel silenzio è cosa viva. Alla richiesta di pensare a qualcosa di vivo, credo che in tanti penseremmo a qualcosa di pulsante, banalmente
all’immagine del cuore che batte. Quando ascolto i brani silenziosi di John Cage percepisco un silenzio pulsante e l’esperienza è molto simile a quando con la giusta attenzione riesco a sentire i battiti del mio cuore o quando durante le sessioni di meditazione mi concentro sul respiro. Nel silenzio ascolto l’ispirazione, nel silenzio ascolto l’espirazione. Sono vivo!

Il compositore e musicologo statunitense Kyle Gann, autore di Il Silenzio non esiste (I Libri di Isbn/Guidemoizzi, 2012), ci suggerisce come il brano 4’33” può essere considerato la conseguenza dell’esaurimento della tradizione classica ipertrofica che lo aveva proceduto. Non escludo che la mia attuale ricerca di silenzio e sul silenzio, come condizione e come oggetto di studio, che negli ultimi mesi mi ha avvicinato alla pratica della meditazione, a certe letture, allo studio, a scrivere ciò che sto scrivendo e a piccole trasformazioni (poco coraggioso per scelte più radicali?) nella mia vita relazionale, sociale, lavorativa, sia la conseguenza di un esaurimento causato da uno stile vita plasmato dal sistema in cui sono/siamo tutti immersi: un sistema che si basa sull’iperbole di qualsiasi aspetto della nostra esistenza, un sistema ipertrofico, ipermoderno, iperproduttivo e decisamente troppo rumoroso.

Nei giorni in cui ho iniziato a scrivere questo testo ho ricevuto per email i biglietti per partecipare a una nota fiera d’arte contemporanea. Come curatore e animatore di progetti culturali, la fiera è sempre stata un appuntamento da non perdere, ma in questa occasione il solo pensiero di catapultarmi nella baraonda del mercato dell’arte a gestire chiacchiere, ego, artisti in vetrina, poveri che si fingono ricchi, ricchi che si fingono poveri, mi ha fatto venire il voltastomaco e così ho rinunciato alla gita fuori porta. Appartenente al gruppo sociale dei lavoratori dell’arte, nel tempo anche io sono stato introiettato in un sistema in cui in un modo o nell’altro il fare arte deve essere capitalizzato (pena l’esclusione e l’etichetta del “pittore della domenica”) con la conseguenza di un’accelerazione di qualsiasi progettazione culturale, di una sua banalizzazione e conformismo.

Non è una questione che gravita solo intorno alla necessità di fatturare e quindi mangiare. Studiando le programmazioni di Associazioni, Project space, Non profit, gruppi informali e spazi vari (millantatori di progettualità indipendenti svincolate dal mercato) ci possiamo accorgere come tutto si sviluppi intorno a una omogenizzazione di azioni, nomi, immagini, brandizzazioni, grafiche fighe, comunicazione, comunicazione, comunicazione. Si tratta dell’annullamento di qualsiasi singolarità e autentica individualità. L’importante è far parte del gruppo, che ciò che produciamo venga mostrato, che l’arte diventi oggetto/immagine/post di un’ipercomunicazione e di un’ipersignificazione che alla fine non significa nulla. Affronta bene la questione Federico Ferrari nel libro Il silenzio dell’arte (Luca Sossella editore, 2021), da cui estraggo questo pensiero: «Il valore di un’opera d’arte non è dato tanto dalla sua forza espositiva, dalla sua capacità di impressionare la vista, di catturare lo sguardo, ma dalla sua segretezza, profondamente legata a un rituale, che lega alla memoria ancestrale dell’origine». Ferrari fa riferimento all’arte preistorica, quella delle caverne. L’arte rupestre si apre alla visione e al contempo si nasconde nel buio della caverna. Riportando il pensiero di Walter Benjamin, Ferrari scrive: «Delle opere che vi sono contenute si può ammettere che il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste».
Queste riflessioni sono così lontane da ciò che l’arte oggi rappresenta che sorrido nel pensare ai suoi studenti di Brera che immagino essere impegnati ad aprire nuove pagine Instagram da riempire di ben fatte fotografie per attirare like e qualche giovane curatore. Se invece provassimo a coltivare un nuovo paradigma fondato sul silenzio e l’invisibile? È Possibile anche solo pensarlo? Per ciò che mi concerne quest’anno niente fiere, più amici monaci sugli scaffali della mia libreria e viva i pittori della domenica!

Sulla pagina di copertina del saggio di Chandra leggiamo: «Lasciare spazio intorno ai gesti ordinari, dargli una stanza, li fa brillare, permette che aprano un varco nell’oscurità in cui di solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora, pian piano, si ricevono le visite della consapevolezza: sono i miracoli del noto». Osservando i miei gesti, le mie azioni e quelle delle persone che mi stanno attorno, mi accorgo come queste siano spesso nervosamente costrette all’interno di schemi produttivi che imprigionano e impediscono la crescita spirituale e il benessere che sono convinto possiamo raggiungere nella sua autenticità solo attraverso il conseguimento della realizzazione personale al di fuori da schemi e meccanismi di dominio. Mi piace l’immagine che Chandra Livia Candiani ci mostra poeticamente: i gesti quotidiani che trovano respiro, spazio, che trovano un luogo, una stanza in cui brillare. Forse la domanda che dobbiamo porci non è dove trovare questa stanza, ma quale rivoluzione mettere in atto per ritrovarci in questa stanza. E se la stanza di cui parla la poetessa milanese non fosse altro che il tempo? La domanda che dovremmo porci dovrebbe quindi essere: Come ritrovarci nel tempo?

Il filosofo Byung-Chul Han prendendo in esame il contemporaneo riflette su come il nostro tempo sia abitato da uomini che non abitano il tempo. Nel saggio Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi, 2023) il filosofo si concentra su ciò che considera essere la causa del nostro distacco dal reale: il flusso continuo di informazioni che travolge il nostro quotidiano. Byung-Chul Han parla in termini di inondazione di informazioni e credo che la metafora della forza dell’acqua non possa che essere più appropriata. Di fronte a un’inondazione l’uomo può fare poco. Una volta che l’acqua ha travolto gli argini, questa sommergerà e distruggerà ogni cosa. L’acqua si insinua un po’ ovunque, si adegua alla forma del contenitore che la accoglie e modifica il proprio cammino aggirando qualsiasi ostacolo. Lo scenario è sicuramente catastrofico. Già Lyotard nel 1979 parlava di fine della storia e della caduta delle grandi narrazioni e a distanza di quasi mezzo secolo non possiamo che constatare come sia l’iperinformazione, con la sua natura frammentaria e abbracciando sempre fini consumistici, a costruire con acqua e sabbia una narrazione sul nostro tempo storico, una narrazione fragile destinata a una continua erosione, distruzione, ricostruzione.

Tutto si modifica in continuazione, tutte le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini, sottolinea Bauman dando forma agli inizi del XXI secolo al concetto di modernità liquida. Oggi Byung-chul Han attraverso la sua critica ci invita a ritrovarle quelle abitudini ricordandoci dell’importanza delle cose reali, nella loro tangibilità e alterità, per tornare a provare un senso di sicurezza e per tornare ad abitare il tempo. Ad abitarlo e non a consumarlo. Nel penultimo capitolo (Silenzio, pag. 99) il filosofo coreano scrive: «Il silenzio scaturisce dall’indisponibile, che accentua e approfondisce l’attenzione creando uno sguardo contemplativo dotato della pazienza per il lungo e il lento. Là dove ogni cosa è disponibile e raggiungibile non si crea alcuna attenzione profonda. Lo sguardo non indugia: vaga come quello di un cacciatore». Non è poi troppo diverso da ciò che insegna Calvino, in riferimento alla scrittura, suggerendoci di andare oltre alla genericità della parola, di lasciar stare ciò che viene scritto con facilità, ma di concentrarci sul blocco, su ciò che non riusciamo a scrivere. Parafrasando Byung-Chul Han azzardo una riflessione che ben si addice alle tradizioni della terra orobica da cui scrivo. Se ci impegnassimo a essere tutti quanti meno cacciatori e al posto della caccia prediligessimo la raccolta di funghi? Quelli più rari, quelli che vanno cercati nei boschi più impervi, quelli meno disponibili a farsi trovare, quelli che si nascondono all’occhio pigro o poco allenato. L’immagine proposta del ricercatore di funghi, che di certo verrà apprezzata da qualche amico fungaiolo, è qui proposta solo per evidenziare come forse l’unico modo che abbiamo per tornare a dare valore alle cose, alle persone, al tempo, alle esperienze che nel flusso della vita liquida perdono di senso, di valore e di utilità, per contrastare quel senso di inutilità e di impotenza con cui inevitabilmente presto o tardi dovremo avere a che fare, possiamo solo fermarci o quanto meno provare a rallentare, accogliendo il lungo e il lento, interrogandoci e imparando a scegliere e a dire di no a tutto ciò che inarrestabilmente ci viene proposto e/o imposto. Possiamo provarci a orientarci verso nuovi cammini, magari imboccando strade che impongono un camminamento verticale, sicuramente più faticoso, ma di certo capace di farci scendere e farci elevare a nuove profondità e altitudini.

Nel bel mezzo di un’inondazione possiamo tentare di costruire delle isole di resistenza, delle piccole isole di sopravvivenza, magari ai margini o comunque il più possibile al riparo dalle infiltrazioni.
Su queste isole forse possiamo cercare, trovare e praticare un’alternativa. Jennifer Guerra citando nel suo saggio Il Capitale Amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Bompiani, 2021) la scrittrice, attivista e femminista Bell Hooks, scrive della marginalità come luogo di radicale possibilità di alternativa al dominio. Come un’isola tutta da scoprire, le nostre isole di sopravvivenza potrebbero diventare quei luoghi marginali da scoprire, da esplorare, in cui sperimentare possibilità alternative, da condividere poi, con coraggio, all’interno di una comunità allargata, così da favorire la propagazione di nuove idee per un’emancipazione dal dominio. Senza scomodare Foucault, credo che tutti noi, per un motivo o per l’altro con più o meno sofferenza e senso di impotenza, ci siamo sentiti sorvegliati, puniti, prigionieri di qualcuno o di qualcosa. Come rispondere al dominio? Più facile domandarselo che trovare la risposta, ammesso che ce ne sia davvero una, o che a poterla trovare siano pochi privilegiati. Sempre Guerra citando Jung scrive: «Dove l’amore impera, non c’è desiderio di potere e dove il potere predomina manca l’amore». Non ne abbiamo più il tempo, anche l’amore, soprattutto l’amore è stato schiacciato dal dominio tecnoscientifico, annacquato dalla vita liquida, relegato ai margini delle nostre giornate. Immagino che tutto debba ripartire da qui, dall’amore. Costruire un’isola di resistenza senza mettere al centro delle nostre vite l’amore, preso e portato fuori dalle dinamiche di consumo e di convenienza, non avrebbe alcun senso. Riguardando alcuni miei appunti trovo alcune parole di Spinoza, prelevate dal Capitale Amoroso di Jennifer Guerra, fatte mie per inciderle sul portone d’ingresso della mia isola di resistenza: «La gioia dell’amore ci accresce, ci rende spiritualmente più ricchi e di conseguenza più vigili nei confronti del potere, più resistenti di fronte all’abuso, più immuni alla tristezza».

Quindi, dove cercarlo questo silenzio? L’immagine che propongo dell’isola di resistenza non deve rimandare a qualcosa di utopico. Non credo molto nella fuga su un’isola fuori dal mondo, ascesi e ritiri in eremitaggi lontani da tutti e da tutto. Dove lo possiamo cercare quindi il silenzio? Dentro, fuori, sopra, sotto, intorno? Susan Sontag nel saggio Estetica del silenzio presente nel libro Stili di volontà radicale (Mondadori, 1999) ci ricorda come il silenzio non smette mai di sottendere il suo opposto e di dipendere dalla sua presenza. La risposta più corretta potrebbe dunque essere “al di là del silenzio”. Forse il silenzio lo possiamo iniziare a cercare e comprendere nella sua pienezza, nel suo valore e potenziale proprio dove c’è rumore e nel caos che appartiene al contemporaneo. Quel rumore forse ci farà porre delle domande e come scrisse il poeta francese René Char, citato nello stesso saggio della Sontag: «Nessun uccello ha cuore di cantare nel fitto delle domande».

 

Nell’immagine:
Giacomo Infantino, Preja Büia, 2020 – Courtesy the artist

 

Alberto Ceresoli  
Artista, poeta e curatore d’arte contemporanea. Collabora con associazioni, project space e gallerie d’arte. Negli anni ha collaborato con diversi editoriali e testate giornalistiche. Si occupa di progettazione culturale ed è impegnato in progetti educativi, percorsi di formazione e di inclusione sociale.