Giov-inetti mai! • Federica Mutti

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(_e visioni)

 

Il mondo dell’arte, si sa, si regge su regole proprie.
Che l’artista appena nato sia destinato a una lunga infanzia lavorativa è ormai dato assodato.
In generale, oggi il panorama lavorativo italiano non è per i suoi giovani una veduta amena ma, se possibile, il sistema professionale legato alle arti visive sembra comunque stare un po’ peggio degli altri.
E mentre – tanto per dire – a X Factor dai venticinque anni sei già “Over”, il giovane artista visuale ha in media tra i trentacinque e i quarant’anni. La legge non cambia per il giovane curatore, il giovane critico, il giovane scrittore per l’arte e via dicendo.
E prima di allora? La domanda sorge spontanea se si pensa che, come tutti gli altri percorsi universitari, anche quello accademico termina in tre o cinque anni e che, se si sono rispettati i tempi consueti, il tanto agognato diploma di laurea lo si consegue attorno ai venticinque anni.
Cosa accade allora nella vita di un comune abitante del mondo dell’arte in quei dieci anni che, dopo la gestazione scolastica, separano la sua messa al mondo dal raggiungimento della cosiddetta “età giovanile”? Se altrove la giovinezza resta ancora un fattore anagrafico, biologico e fisiologico, nel mondo dell’arte l’esser giovani assume un valore diverso: non appena si mette la testa fuori dall’accademia si scopre che la giovinezza qui va conquistata.
Pare che acquisisca il diritto a esser finalmente giovane (artista/curatore/critico/scrittore/gallerista…) colui che, non ancora storicizzato né universalmente noto, abbia già cominciato a collezionare qualche segno di riconoscimento. Fa fede il curriculum, che dovrà essere il più possibile gonfio e carico di un certo presenzialismo – da non intendersi affatto con accezione negativa, ma come forma di esercizio della propria esistenza.
Il giovane che è giovane ancora solo in senso anagrafico avrà dunque il suo bel daffare per diventare giovane a tutto tondo: così s’intende com’è che se ne vanno quei dieci anni di cui sopra.
Come se non bastasse, la condizione del solo-anagraficamente-giovane è guardata con malcelato sospetto dal pubblico dell’arte. Nella grande cerimonia dell’arte contemporanea gli si riserva ancora il tavolo dei bambini, che è sorvegliato da lontano. E guardandoli sempre da una certa distanza si è diffusa l’incresciosa diceria che i non-ancora-giovani non abbiano granché da dire, li si è tacciati di giov-inettitudine.
Di contro, a sfatare questo mito c’è uno stuolo di più che capaci “artisti-bambini” e di loro coetanei curatori, scrittori e critici che sembrano aver creato un vivace microcosmo nell’universo dell’arte.
È un microcosmo che di primo acchito pare ricalcare le dinamiche normalizzate e consolidate dal macrocosmo in cui si innesta: i suoi abitanti sperano in fondo d’esserne, anche solo per sbaglio, fagocitati? Questa è un’altra delle accuse.
Stanno solo giocando!” grida invece chi scaglia loro addosso l’accusa peggiore.
I bambini dell’arte giocano alle mostre, a dirigere nuovi spazi, a scrivere per le frenetiche versioni online delle riviste per cui vorrebbero un giorno lavorare a tutti gli effetti, a curare le mostre dei loro compagni dell’accademia, a dire la propria su questo strano sistema che nel contempo li attrae e li repelle.
È innegabile: in questo microuniverso non si spostano capitali – né sostanziosi né piccoli – e non si fa in genere la storia delle grandi mostre, né si ha davvero voce in capitolo nel dibattito artistico contemporaneo, se non in casi davvero eclatanti. A conferma del fatto che sia tutto un gioco ci si mette una prova schiacciante: non si è abitualmente retribuiti. Si naviga a vista nel mare magnum del non-profit, dell’abnegazione per amore della ricerca, dell’esperienza in nome del curriculum, in parole povere, del lavoro non pagato.
I giovani-all’anagrafe li si vede devoti e gratuitamente impegnati a ritagliarsi uno spazio nel mondo dell’arte dei grandi: nella frenesia di apparire loro credibili tentano di replicare la norma del macrocosmo, con estrema professionalità, spesso con tutti gli specialismi del caso. Ma per fortuna non ci riescono: manchevoli delle risorse necessarie per esser proprio così come volevano essere, si devono arrabattare per arrivarci per vie traverse, rinunciando a questo e a quello. Vi sostituiscono quel che possono offrire. Ecco che nel tentativo di rientrare in una di quelle forme che il sistema dell’arte ha già normalizzato, finiscono per inventarsi nuovi e fortunati modi d’esistere e di lavorare.
Non si sta certo cercando di beatificare qualsiasi esperimento dei neonati dell’arte, come sono solite fare le madri che elogiano la “pipì santa” dei loro bambini.
È indiscutibile che nella rete iperattiva dei giovanissimi spazi, blog, siti d’informazione e ricerche personali si ritrovino spesso cose che si erano già viste, o novità interessanti che poi ci vengono a scadere perché ripropinate in replica, ancora e ancora. C’è in effetti il rischio che questo sistema nel sistema mutui tacitamente la frenesia dell’iper-produzione rapida che è tipica del contemporaneo e che condanna all’altrettanto veloce digestione, cui segue l’immediata trasformazione in scarto.
Ma del resto, sarà il tempo a dimostrare se questi giochi semi-seri sapranno reggere la trasformazione nei lavori seri di domani. Sarà sempre l’esperienza a rivelare se questi giochi che i “bambini dell’arte” si sono inventati avranno la forza di sopravvivere così com’erano nati, o se finiranno per abbracciare le dinamiche consolidate del macrocosmo dell’arte. Potrà anche succedere, nei casi particolarmente fortunati, che le proposte nuove nell’essere fagocitate dal sistema grande riescano a plasmarlo, anziché esserne plasmate, diventando così la nuova norma, il nuovo status quo.

Nel 1926, alla XXV assemblea della Società di Anatomia di Friburgo, l’anatomista olandese Louis Bolk presenta la sua controversa teoria relativa al problema dell’ominazione, teoria poi adombrata dall’infelice ricorso a distinzioni razziali che si sono prestate a letture ideologiche compromettenti.
Lasciando da parte le riletture politicamente schierate, nella sua relazione Bolk avanza un’ipotesi che si contrappone, pur senza negarne la validità, alla teoria evoluzionistica darwiniana. Le sue osservazioni morfologiche e fisiologiche lo portano a rovesciare la narrazione che vede nell’uomo un’evoluzione dei primati. Bolk osserva che “le caratteristiche e le condizioni della forma che nel feto degli altri primati sono transitorie, nell’uomo si sono stabilizzate”.
Aggiunge: “[…] allora definirei l’uomo sotto l’aspetto corporeo come il feto di un primate giunto alla maturità sessuale. Da ciò risulta necessariamente che i nostri progenitori avevano già tutti i caratteri primari specifici dell’attuale genere umano, ma limitatamente a una breve fase del loro sviluppo individuale. Perciò le caratteristiche dell’uomo non sono acquisite, esse erano già presenti nell’organizzazione dei suoi progenitori come stati transitori.”
Bolk suggerisce così un ribaltamento imprevisto della nostra lettura della storia dell’uomo: si inverte la gerarchia evolutiva, è l’uomo a contrarre un debito evolutivo con i primati?
Che si possa tentare la stessa operazione con la storia dell’evoluzione curriculare dell’artista-appena-nato in giovane artista? Alla luce di questa suggestione, si potrebbe azzardare una rilettura bolkiana del sistema dell’arte, una rilettura che ammetta la possibilità che nell’artista, nel critico, nel curatore e nello scrittore che ci si ostina a dire giov-inetti siano già naturalmente presenti tutti i caratteri che, una volta consolidati e stabilizzati, distingueranno le loro versioni finalmente giovani.
Se si conviene con Stephen Jay Gould che, sintetizzando estremamente Bolk, afferma che “il bambino è il padre dell’uomo”, si conceda allora un po’ di fiducia a questi artisti appena nati.
“L’artista appena nato è il padre del giovane artista!” si potrebbe rispondere a chi ne disconosce il valore. Ma soprattutto: “GIOV-INETTI MAI!”

 

Bibliografia:
Louis Bolk, Il problema dell’ominazione, a cura di Rossella Bonito Oliva, Roma, DeriveApprodi, 2006

 

Federica Mutti
Artista visuale. Diplomata
 presso l’Accademia di Belle Arti
G. Carrara di Bergamo è ora diplomanda
presso la NABA
 – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano,
dove ha frequentato il Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali.
www.federica-mutti.com