Julio Cortázar – Cefalea

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Non è semplice sintetizzare le riflessioni che hanno portato alla costruzione della mostra Devo riferire qualcosa che ho visto. Non è semplice, né semplificabile, l’idea che luogo_e vorrebbe veicolare, a tratti gridare, riguardo alle questioni ambientali, ai modi in cui il sistema le individua, prova ad affrontarle e finisce per fagocitarle, trasformandole in una narrazione estetica e vacua.
Più semplice, sicuramente possibile, auspicabile, è rivelare allo spettatore le letture che hanno guidato questa ricerca, che l’hanno indirizzata e ispirata. Come di consueto, ma in modo più che mai necessario, luogo_e segnala allo spettatore un libro, forse due, o tre, perché siano d’aiuto nella decodifica della mostra.

Nel racconto breve Cefalea, dalla raccolta Bestiario (1951), Julio Cortázar (1914-1984) immagina un allevamento di mancuspie, curiosi mammiferi il cui aspetto è lasciato in gran parte all’immaginazione dello spettatore.
Se non opportunamente accudite, le mancuspie sono in grado di trasmettere il proprio malessere agli uomini che se ne occupano, nella forma di un’insopportabile cefalea.
A sorprendere il lettore è il surreale equilibrio che si viene a creare nel micro-cosmo dell’allevamento di Cortázar: gli allevatori tormentati dalla cefalea da “mal-accudimento” trovano apparente sollievo nella medicina omeopatica, si scoprono dipendenti da erbe come la Belladonna, l’Aconitum, il Cyclamen. Cure naturali, s’intende, che idealmente sollevano l’uomo dagli effetti collaterali di una scarsa cura per la natura – animale in questo caso – che lo circonda. Cure palliative, si capisce, che sono tentativi di rimedio singolari, mai soluzioni universali.

Scelto Cefalea come testo di riferimento della mostra, luogo_e deve però riconoscere l’importante contributo di un secondo libro esposto in mostra, L’anima della formica bianca (1925-37), del naturalista Eugène Nielen Marais (1871-1936), opera a cui si deve l’impulso primario a ragionare su questi temi, in queste forme.
Il passo che ha catturato l’attenzione di luogo_e si trova in apertura del capitolo VII, intitolato Lo sviluppo dell’animale composito, dove Marais riporta un’osservazione sul comportamento delle termiti bianche del Sud-Africa. Secondo lo studioso, “Se produciamo una ferita – un piccolo foro verticale, con un bastone da passeggio, per esempio – nel termitaio rotondo dall’Eutermes, e poi isoliamo questa ferita, praticando tutt’intorno, nella pelle, un taglio netto circolare, le termiti cominceranno, come al solito, a riparare la ferita. Ma la vostra azione provocherà, in molti casi, uno strano riflesso. Le termiti danno inizio a una costruzione anomala. Invece di riparare le celle e i cunicoli, e farvi crescere sopra della pelle nuova, si mettono a costruire una torre. Credo che lo stimolo sia la luce del sole. Se la base è troppo stretta, la torre crolla ogni volta che raggiunge una certa altezza, e ogni volta le termiti ricominciano a costruirla. Questa torre non è solo inutile al termitaio, ma rappresenta un vero e proprio fattore negativo. Ha infatti un’influenza perturbatrice, che introduce il disordine nell’andamento normale della vita di tutto l’organismo“.*
Ecco che nel maldestro, eppure scultoreo, tentativo delle termiti di porre rimedio al danno luogo_e vede una metafora delle soluzioni che la contemporaneità ipotizza per i problemi ambientali sempre più evidenti, sempre meno arginabili: ipotesi di soluzioni plateali, spesso estetiche ed estetizzanti, con ambizioni coreografiche, eppure in genere scoordinate, insufficienti, se non del tutto vane, controproducenti.

Un ultimo debito di riflessione luogo_e ce l’ha con il Macbeth (1605-08) di William Shakespeare (1564-1616), da cui la mostra prende il titolo Devo riferire qualcosa che ho visto, tratto dalla scena V dell’atto V.
Fin dal principio Macbeth cerca consiglio e supporto nelle profezie delle streghe, che dapprima lo annunciano futuro re, risvegliando in lui la sete di potere e di sangue, poi, di nuovo interpellate, ne preconizzano la disfatta per bocca di uno spirito, che lo ammonisce: “Macbeth non sarà sconfitto fino a che il bosco di Birnan non muova verso Dunsinane”. Macbeth sottovaluta l’infausta premonizione, sottolineando l’impossibilità di vedere un bosco in cammino. Eppure sarà proprio quella “selva in marcia” a sancire la fine del suo regno di violenza, un bosco umano, che a poco a poco avanza. Soldati ricoperti di rami e foglie, uomini-albero.
Luogo_e lascia a Macbeth la tragedia, prende solo questa immagine, la fa propria per parlare dell’istinto dell’uomo a cercare il presagio, a possedere la preveggenza, per poi storpiare, ignorare e minimizzare quel che si era detto, che si era pre-visto, a proprio vantaggio. In altri casi, invece, la profezia nefasta è il motore propellente per un’azione immediata, per una terapia d’urto in genere frettolosa, non pianificata, né piana. Devo riferire qualcosa che ho visto, dice un messaggero spaventato a Macbeth, […] mentre montavo la guardia sulla collina ho girato l’occhio verso Birnan e a un tratto m’è parso che il bosco incominciasse a muoversi.
E questa immagine di una natura in moto pare a luogo_e una metafora calzante. È di questo moto, di cui ci si preoccupa solo quando si è ormai già stati raggiunti, toccati, che luogo_e vorrebbe parlare.

 

*Da Eugène N. Marais, L’anima della formica bianca, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975

 

Nell’immagine:
Julio Cortázar, Bestiario, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2014
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Julio Cortázar, Cefalea, dall’antologia I racconti, a cura di Ernesto Franco, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2014